Il sogno ha le caratteristiche rassicuranti di alcuni spot pubblicitari: la casa luminosa e ordinata, i colori tenui, una musica in sottofondo. Ma è soprattutto la dimensione del tempo a essere diversa: è un tempo non contratto, dilatato, benevolo, un tempo in cui i bisogni personali diventano centrali.
Compaiono così, sempre nel sogno, quelle piccole, piccolissime cose che rendono più facile la vita: fare la spesa lontano dalle ore di punta, andare in palestra o in piscina possibilmente non nella pausa-pranzo, poter “pensare” alla cena, prepararla con cura...
Il sogno di “mollare tutto” si affaccia con più frequenza nei momenti della vita professionale soggettivamente molto difficili. Accade quando il gioco si fa duro, quando è necessario combattere una battaglia che magari non si sente propria, quando la fatica prevale sul divertimento, quando il tempo diventa ostile. E ancora: quando ci si sente ferite per la cattiveria o l’insensibilità dell’organizzazione, quando i propri meriti non vengono colti e sottolineati (e altri magari meno capaci hanno maggiore visibilità...), quando non si riesce a identificarsi del tutto nel progetto strategico.
Mentre il più delle volte gli uomini in queste situazioni reagiscono aumentando la carica di combattività, un retropensiero affiora nella mente (e nel cuore) delle donne: torniamo a
casa! Perché quella parte dell’identità legata al “dentro”, al luogo classico del femminile, è sempre viva, reclama la sua parte. A questo si aggiungono i sensi di colpa per non riuscire mai ad andare a prendere i bambini a scuola, per le assenze nei momenti per loro importanti, per
non essere al loro fianco nel fare i compiti...
A casa, però, non si torna. Lo dicono le statistiche che ci rimandano un tasso di occupazione femminile in crescita dal 35,8 per cento del 1993 al 41,1 per cento del 2001. Se il dato viene visto in sequenza negli anni, forma una curva che è sempre più simile a quella maschile, mentre un tempo la curva dell’occupazione femminile cresceva fino all’età del matrimonio e del primo figlio per poi subire una flessione evidente. I dati ci dicono anche che le donne stanno progressivamente aumentando la loro scolarità rispetto agli uomini, tanto che le diplomate nel 1999 nella classe di età tra i 25 e i 34 anni erano il 45,9 per cento contro il 43 per cento degli uomini e le laureate il 10,8 per cento contro il 9,1 maschile. Senza contare che escono con votazioni finali più alte...
A casa non si torna, quindi. Perché il lavoro è ormai una parte integrante dell’identità femminile e costituisce un elemento fondante delle motivazioni di vita per qualsiasi donna. Quando si guarda oltre il sogno ci si accorge che sarebbe impossibile vivere senza la soddisfazione di pensare e articolare un progetto, senza il calore del gruppo dei compagni di lavoro - anche se qualche volta c’è un po’ di veleno - , senza il senso di pace che lascia un lavoro ben fatto.
Ma la tentazione di tornare a casa - o meglio, la coltivazione affettuosa del sogno - ha, a mio parere, una funzione positiva. Non solo perché lascia uno spiraglio psicologico nelle situazioni più difficili, ma soprattutto perché ci consente di “giocare” positivamente un’identità plurima, che trae alimento da contesti molto diversi. Un aspetto, questo, che invece manca agli uomini che si trovano nelle stesse posizioni. Per loro il lavoro è quasi sempre la fonte primaria, se non unica, di identità.
Rischiano così di trasformare ogni ostacolo in una lotta di sopravvivenza, e di dare una connotazione competitiva a giochi che sono invece potenzialmente cooperativi. In più, se il lavoro diventa la dimensione unica dell’esistenza, dilaga temporalmente, costringendo le organizzazioni a ritmi ossessivi non solo per necessità reale, ma perché i manager sono diventati workaholic, ossia dipendenti dal lavoro.
Allora, che fare della tentazione di tornare a casa? Preservarla, prima di tutto, come un luogo psicologico e una parte irrinunciabile dell’identità, favorendo una possibile conciliazione tra le diverse parti di sé. Teniamoci stretto il nostro sogno, sapendo che se ne sta vivendo solo la parte più rosea, positiva, non quella oscura della noia, della solitudine, della ripetitività. Il sogno ci potrà aiutare a ricostruire quell’equilibrio interno, che ci sarà prezioso per affrontare i momenti difficili della vita professionale.
Alcune, alla fine, il passo lo fanno. È di qualche anno fa l’autorevole esempio della general manager della Pepsi Cola che lasciando dichiarò che non poteva continuare a perdersi i compleanni della figlia. Quando si arriva a questa svolta si è persa la speranza di poter integrare le identità plurime in un’unica persona “sana”. La lotta interiore è diventata troppo dispendiosa, le diverse parti di sé sono in tale conflitto che si rischia di soccombere. Quelle che alla fine decidono
davvero di tornare a casa, dopo qualche tempo di passeggiate in libreria e di palestra mattutina ritornano spesso ad altri progetti. Dal volontariato, alla consulenza, fino all’imprenditoria: perché la
fantasia femminile non ha confini.
Comments