Siamo all’inizio di una giornata di formazione in una multinazionale.
La persona che, all’interno dell’azienda segue questo programma è la responsabile del personale, è Sara una donna ancora giovane, ma con una grande esperienza alle spalle, che le è valsa un’ottima posizione.
Mi chiede di poter guardare la mia presentazione prima dell’inizio e apro le slide che accompagneranno la mia lezione.
Mentre le scorre vedo che centra qua e là un titolo, abbassa qualche foto, sistema dei dettagli.
Le chiedo un po’ allibita cosa stia facendo e lei mi risponde, quasi riscuotendosi: “Scusami, è la forza dell’abitudine…..”.
Alla fine della giornata ritorno con lei sull’evento della mattina e le chiedo di quale abitudine si tratti. E lei mi racconta che è solita controllare le presentazioni dei suoi collaboratori “per garantirne la qualità”, sostiene.
Sara qualche giorno prima mi ha raccontato i problemi che sta incontrando nell’equilibrio tra vita professionale e familiare. E’ quasi disperata: non ce la fa più a seguire tutto, lavora la mattina presto, quando marito e figlio dormono ancora e la sera si attarda a rivedere le e.mail sul computer.
La discussione tra me e Sara si fa accanita. Lei sostiene che “deve” controllare tutto, perché è la garante e depositaria dell’immagine dell’agenzia, io sostengo che questa è una spirale perversa, da cui non troverà mai via d’uscita. Quello che personalmente mi stupisce in questa discussione è che Sara di trova davvero in un double binde descritto da Bateson, in cui qualsiasi strada scelta sarà quella sbagliata. Per come lei imposta il problema se non controlla in modo stringente l’operato dei suoi collaboratori uscirà con una immagine non corrispondente al suo ideale di lavoro ben fatto, dall’altra continuando a tenere il fiato sul collo alle persone in modo stringente, si ritroverà presto a fare i conti con problemi di salute.
Per cercare di aiutarla ad uscire da questa impasse, non posso fare altro che tentare di razionalizzare con lei i lati negativi del suo modo di agire, anche se ho il sospetto che in questo caso i miei interventi saranno dei palliativi e che Sara avrà bisogno di un altro professionista che l’aiuti a capire perché deve ossessivamente controllare quello che gli altri fanno.
Il primo aspetto negativo riguarda la sopravvalutazione del suo punto di vista. Sara è indubbiamente un’ottima professionista, se no la multinazionale che l’ha designata a quell’importante ruolo non l’avrebbe scelta. E’ anche suo compito dare un imprinting al modo di operare della sua funzione, ma da questo a volere al suo fianco dei cloni che siano in grado di riprodurre in modo totale il suo modo di lavorare, esistono diverse possibilità intermedie. Invece Sara non si accorge di ledere profondamente non solo l’autonomia dei propri collaboratori, ma anche la loro professionalità.
E’ questo un comportamento molto diffuso nelle donne, ma che trova seguaci anche in molti uomini, anche se con caratteristiche leggermente diverse. Per le donne si tratta, a mio parere, della solita, atavica, insicurezza. Una volta raggiunta una buona performance non la si vuole mettere in discussione. Per alcuni uomini, invece, il tratto è la pigrizia. Perché dovrei trovare altri modi, si è sempre fatto così, funziona, quindi non sforziamoci di cambiare.
Entrambi questi comportamenti portano però ad un sostanziale immobilismo organizzativo.
Ma l’altro grave risvolta riguarda proprio i collaboratori, quelle mitiche risorse umane che ogni libro e ricerca pongono oggi al vertice delle potenziali ricchezze aziendali. Quando ci si trova a fare i conti con un capo così ossessivamente presente il risultato minimo è la depressione. Si temono i suoi interventi e, cosa ancora più rischiosa per l’organizzazione nel suo complesso, non si cercano le soluzioni più appropriate alla bisogna, ma ci si chiede ossessivamente cosa lei vorrà, quale sarà la frase, il modo di dire che le piacerà di più. Insomma, non ci orienta ai problemi, magari percorrendo strade diverse e innovative, ma si persegue la soddisfazione del capo.
Estremamente esemplificativo di questa modalità di operare è la mitica Miranda Priestly de “Il diavolo veste Prada” che, tralasciando gli altri innumerevoli aspetti di colore gestionali che potrebbero essere sottolineati, è una grandissima accentratrice. Proprio attraverso lei possiamo capire che il rischio riguarda proprio le brave, le persone che davvero sono, come si dice in gergo, outstanding.
Ma proprio queste persone così brave non si rendono conto che in questo modo i proprio collaboratori cessano di apprendere. Interrompono il loro personale processo di crescita, per confrontarsi continuamente con quello che l’altro vuole, alla ricerca del dettaglio invece considerando lo sguardo d’insieme.
Certo Miranda, in questo modo, mantiene non solo il controllo, ma anche il potere. Non far crescere gli altri è un ottimo modo per non dover fare i conti con potenziali concorrenti.
Sara, invece, è una donna intelligente e una onesta professionista. E’ stata proprio questa l’argomentazione che l’ha convinta. Abbiamo provato insieme a rovesciare le parti e si è messa lei nei panni dei suoi collaboratori esplorando i disagi che quotidianamente loro provano.
Ha capito non solo l’insofferenza che essi possono sperimentare, ma soprattutto l’impossibilità di crescere, che per chi ama il proprio lavoro è un’autentica disperazione. .
Probabilmente non cambierà il suo comportamento da un giorno all’altro, perché imparare la tolleranza all’errore, sempre che di errore si tratti, non è cosa facile. Ma l’importante è che abbia compreso che, tra le due strade sopra descritte, una è sbagliata e non va percorsa. Il tempo farò il resto.
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