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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Le donne e un mondo in cambiamento

Si sente spesso affermare che l’unico aspetto certo delle nostre vite è il cambiamento. Un tema che ritrovo profondamente nella mia biografia di baby boomer, ovvero quella generazione che ha avuto la giovinezza nel secondo dopoguerra, forse nell’unico periodo di sviluppo vero e continuo che il nostro Paese ha avuto.


Uno sguardo al passato lo lancio frequentemente, perché i cambiamenti di cui, con la mia generazione, sono stata testimone, in quegli anni ’70 non li avrei mai immaginati. Solo per fare un esempio mi sono laureata in Storia e Filosofia nel ’77 passando numerosi giorni in polverose biblioteche e archivi di stato, e soprattutto redigendo una spessa tesi, in termini di fogli, su una macchina da scrivere elettrica, che mi concedeva in uso il mio datore di lavoro dopo l’orario, se no avrei dovuto usare la mia portatile meccanica…

Oggi entrambi questi oggetti sono da museo. E’ solo un esempio per capire come il cambiamento sia stato, per me e penso per molti, uno spunto continuo all’aggiornamento, alla riflessione, al mantenersi vivi.


Quando Antonella e Silvia mi hanno proposto di fare una riflessione sul tema degli affitti brevi, legata al mondo femminile che è quanto di cui mi sono occupata in questi anni, la mia prima reazione è stata scettica. Un ambito per me lontano, quello dell’hosting, di cui onestamente so poco. Invece mi hanno aperto un mondo, come sempre capita in questi casi, e la curiosità ha preso il sopravvento.


Tenendo come filo rosso quello del cambiamento, la prima osservazione da fare è quanto internet abbia modificato ogni aspetto della vita. Per quanto mi riguarda come sarebbe stato diverso poter scrivere la mia tesi con un pc e poter accedere alle informazioni, anche quelle accademiche e di qualità, in pochi minuti. Internet ci ha messo l’universo a disposizione. E’ solo attraverso internet che è pensabile la shared economy, quello scambio tra pari possibile solo per la facilità di connessione e per la reputazione.


La prima riflessione che ritengo utile proporre riguarda la dimestichezza femminile con questo universo. I dati italiani ci mostrano sempre una rilevante scarsità, diffusa comunque in tutto il mondo con percentuali diverse, delle donne che scelgono professioni legate alle materie scientifiche, anche se il percorso di studi in informatica è più equilibrato rispetto ad altri segmenti tecnico scientifici. Un gap difficile da colmare in cui sono molto impegnate soprattutto le aziende che necessitano di equilibrare il rapporto numerico uomo donna nella loro compagine aziendale. Moltissimi sono i progetti di informazione alle giovani donne per supportarle in una scelta scientifica, con risultati non sempre rilevanti. Quando dal mondo della “produzione” informatica si passa a quello dell’utilizzo, la situazione è assolutamente paritaria, anche nelle diverse fasce di età. Connessione ad internet, utilizzo di social network, dimestichezza con la rete è uguale al maschile e al femminile, con ovviamente una maggiore confidenza per la fasce giovani della popolazione.


Se alle statistiche posso aggiungere l’esperienza personale propria da baby boomer, devo dire che trovo le mie coetanee e anche la generazione successiva più capaci di muoversi nell’universo di internet dei loro compagni maschi. Ma questa è un’osservazione fonte del mio universo prossimo e come tale potrebbe essere confutata.

Abbiamo così superato la prima barriera di accesso: le donne sanno utilizzare internet e quindi possono candidarsi ad essere attive nella shared economy, almeno in termini potenziali.


E’ proprio a partire delle riflessioni precedenti che hanno per oggetto quelli che gli studiosi definiscono “segregazione orizzontale”, termine usato soprattutto in azienda per definire le posizioni o completamente maschili o completamente femminili, che possiamo aggiungere qualche considerazione.


Facendo qualche passo indietro e proponendo una lettura semplificata del lavoro al femminile nel tempo, possiamo mettere in luce come le problematiche di incontro con il lavoro siano state diverse nelle differenti generazioni. Le donne nel nostro Paese hanno sostituito gli uomini al fronte sia nella prima che nella seconda guerra mondiale, con esiti diversi, in quanto nel dopoguerra degli anni ’20 le donne sono tornate nel seno della famiglia, continuando in realtà a lavorare moltissimo sia per gli impegni classici casalinghi, ma anche impegnandosi in quella economia di sussistenza che era necessaria per integrare le spesso scarse entrate. Lavoro nell’orto, allevamento animali da cortile, cultura del gelso e allevamento dei bachi da seta. Un lavoro enorme, spesso inquantificabile, che nascondeva dentro l’universo familiare un importante pezzo di produzione.


Nel secondo dopoguerra le cose andarono diversamente. Le donne iniziarono ad uscire di casa con consapevolezza, cercando nel lavoro qualcosa di diverso. Gli anni ’60, da questo punto di vista, sono ambivalenti: da un lato nasce il mito della casalinga, sostenuto dalla filmografia americana e soprattutto dalle pubblicità, tutta dedita alla casa, ai figli, alla pulizia e alla cucina; dall’altro molte donne iniziano a studiare e ad avere una visione del mondo differente dalle loro madri. Le prime ad entrare nel mondo del lavoro sono sanzionate dal senso comune che vuole l’occupazione come un periodo transitorio prima dei figli, poi, diventando madri, si rientra nel contesto domestico. In molti casi si arriva a dire che le donne che lavorano lo tolgano ai maschi, con una concorrenza sleale perché pagate meno.

Ma queste giovani donne che hanno studiato comprendono che il lavoro ha un duplice portato, serve certo per guadagnare e integrare l’economia familiare, ma può avere un significato intrinseco, di autorealizzazione, di risposta ad un bisogno di senso che la casa non riesce a contenere.


A partire da questo quadro si forma via via il mondo del lavoro femminile come lo conosciamo oggi, anche se, naturalmente, sta ancora cambiando. Le due principali problematiche che le donne si trovano ad affrontare sono due, che vorrei poi esplorare separatamente: la già citata segregazione orizzontale e poi il mitico “soffitto di vetro”, ovvero quella barriera invisibile che le donne non riescono a superare nella scala gerarchica e che ancora oggi preme sulla testa in molte organizzazioni. Questo secondo fenomeno viene denominato “segregazione verticale”.


Il primo grande flusso di segregazione inizia dalla scelta universitaria. Come già accennato precedentemente ad ingegneria si iscrivono circa il 70% di uomini mentre a scienza dell’educazione le donne sono circa il 90, dato leggermente inferiore a psicologia. Esamino queste tre facoltà in quanto emblematiche di scelte di genere: le materie scientifiche sembrano non essere o essere poco, territorio femminile, mentre l’insegnamento nelle scuole per bambini è regione completamente femminile. Sottolineo tra l’altro un punto che propongo molto spesso dove possibile al dibattito sociale: mentre molti soggetti come aziende, istituzioni, opinion leader stanno cercando di promuovere le cosiddette materie STEM al femminile, nulla si fa per invogliare i giovani maschi a percorsi di formazione legati all’insegnamento, dimenticando che un settore importantissimo come la scuola offre agli studenti quasi esclusivamente il punto di vista femminile, in dipendenza del grado di studi. Ovviamente la presenza maschile quasi assenti nella materna e nelle elementari, inizia a fare la sua comparsa alle medie, soprattutto superiori. Nelle università dipende dalla facoltà, ma i posti di comando tornano ad essere fortemente maschili.


Queste scelte conducono a professioni completamente diverse sia sul piano simbolico / reputazionale che per potenzialità di posizioni lavorative. Resta un segnale imprescindibile: le donne si orientano agli ambiti di cura con molta più frequenza che al maschile, reputando – a torto o a ragione è impossibile dirlo – che quelli siano i territori in cui possono esprimere al meglio il loro potenziale. Aggiungo una notazione personale: avendo svolto molti percorsi di coaching trovo spesso donne intorno ai 45/50 anni, con buone posizioni in azienda, che mi dicono che vorrebbero lasciare per “ritornare” ad occuparsi di persone.

Questi i dati di fatto sulle cui cause esistono due scuole di pensiero, ovviamente contrapposte ed in conflitto. La prima che sostiene che le donne siano preda anch’esse degli stereotipi sociali da cui vanno liberate, la seconda di impronta spesso confessionale che decreta la cura come luogo femminile a cui tutte le donne dovrebbero tornare per una società buona e giusta.


In mezzo ci stiano noi, le donne in carne ed ossa, che devono sempre chiedersi quali siano le proprie aspirazioni e desideri da un lato, ma anche le possibilità concrete di realizzare i propri sogni senza tagliare parti essenziali della propria vita.

Ovviamente questo tema della cura, descritto fino ad ora in termini professionali, esplode nel momento della maternità. Quella che si è sempre denominata conciliazione dei tempi, in realtà, è lo sforzo di mettere d’accordo due identità imprescindibili, quella di madre e quella di professionista.


La domanda successiva è: quali sono i luoghi dove poter utilmente interpretare queste due parti del teatro della vita che sono entrambe essenziali?

Le aziende sono avare di possibilità. I part time sono previsti per posizioni d’ordine, per le impiegate fino ad un medio livello, e spesso sono guardati comunque con sospetto; ogni donna che intraprende una carriera significativa si trova sostanzialmente prigioniera dell’ordine simbolico maschile: dedizione totale, orari che nemmeno Dickens sarebbe riuscito a descrivere. Una modalità lavorativa spacciata per produttività e bisogni del cliente, quando invece spesso descrive disorganizzazione mentale, ma soprattutto un regime da caserma, dove il nonnismo si esprime nella formattazione mentale al lavoro totale, all’workhaolism (la dipendenza dal lavoro) che devono assumere i nuovi adepti. Le donne spesso se ne vanno esaurite, ma anche i giovani maschi stanno sabotando questa organizzazione in nome di esigenze di equilibrio della vita che è un obiettivo molto chiaro della generazione y. Ovviamente non tutte le aziende corrispondono a questa descrizione, anzi da quando il Diversity Management ha fatto capolino nelle strategie aziendali molti manager posto attenzione ad ambienti di lavoro più inclusivi.

Ecco che la scelta imprenditoriale, spesso è una soluzione interessante. Anche nella predilezione dei settori in cui impegnarsi le donne appaiono prevalentemente orientate alla cura. Solo il 10% circa (dati Lombardia della Camera di Commercio) si occupa di industria, mente il 40 % circa è nei servizi.


Ma il cambiamento continua e propone nuove e interessanti soluzioni. L’hosting, nato quasi per caso come spesso avviene, nel 2007 in una San Francisco dove non si trovavano camere d’albergo per un convegno molto affollato, e due persone intravidero un’opportunità nell’affittare alcune stanze libere delle loro abitazioni. La formula si consolida, si espande ed assume la forma che viene ben trattata in questo testo.

La contaminazione avviene per passa parola, in modo orizzontale, mediata da internet. E dal quell’ormai lontano 2007 diviene una opportunità per molti, ma soprattutto per tantissime donne.


Non solo ci si muove in un universo molto noto, quello della casa, a cui si sono dedicate molte energie, pur nelle differenze individuali, ma il compito non appare gravoso. E soprattutto non richiede degli investimenti onerosi che qualsiasi altra attività imprenditoriale potrebbe prevedere.


I dati che le autrici condividono ci descrivono questo universo, ovviamente ancora in cambiamento, ma che ci racconta di energie che erano sopite, soprattutto in donne di una certa età, magari di quella generazione che aveva sposato il modello del lavoro prima della maternità e che, quando si sono trovate con del tempo ancora impiegabile nella società, sono state respinte perché troppo adulte. Come racconto i selezionatori due sono le caratteristiche che fanno escludere immediatamente un cv: età avanzata e genere. Poi ovviamente le situazioni sono molto diversificate. In una ricerca di qualche anno fa orientata a comprendere quanto l’età, diciamo dopo i 45 anni, fosse un ostacolo abbiamo rilevato che le donne espulse dal mercato del lavoro si adattassero più facilmente dei colleghi uomini a posizioni di minor peso in attesa di altre possibilità.


L’altro aspetto interessante del punto a cui si trova il fenomeno dell’hosting è che si sono sviluppate associazioni che supportano coloro che si impegnano in questa attività. Anche qui vi è un dato importante: le donne si associano molto più degli uomini, formando circa il 70 % degli aderenti.


Si evidenzia qui un altro tratto femminile importante: la difficoltà delle donne a reputarsi “arrivate” in termini di competenze, continuando a ricercare conferme che poi. per fortuna, conducono a miglioramenti. E’ questo un elemento costante nelle ricerche sulle differenze genere: gli uomini hanno una tendenza all’”overselling”, ovvero a dichiararsi migliori di quello che in realtà sono in termini professionali, mentre le donne, al contrario, tendono a sentirsi meno preparate di quanto in realtà non siano.


In questi anni ho progettato e gestito molti percorsi formativi di “empowerment” femminile, proprio per supportare le donne ad autovalutarsi in modo più corretto per essere maggiormente consapevoli di sé nel mondo del lavoro. Ma in questa attitudine ad essere molto attente alle proprie competenze c’è anche un tratto di capacità di aggiornamento, che se contenuto da un eccesso di perfezionismo, può essere una carta vincente.

L’hosting si è rivelato un settore molto utile alle donne, che in molti casi sono passate dall’affittare una stanza della loro casa, ad una dimensione imprenditoriale più ampia, in un percorso graduale che ha consentito loro di sperimentarsi e di consolidare via via una modalità più consistente.


Un mondo quindi che accoglie molte differenze: chi vuole restare nel semplice affitto di una stanza per brevi periodi, che invece di questo universo ha compreso le altre potenzialità aprendosi a diventare una imprenditrice a tutto tondo, come nella storia raccontata da Silvia.

Insomma, un mondo nuovo, che ha radici antiche, ma che si apre verso formule che assumono dei connotati estremamente cangianti, confermandoci, ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la vera competenza è capire cosa accade, muovendosi con curiosità alla ricerca di opportunità che un tempo non esistevano. Qualcuno potrebbe pensare che questa attività alla fine sia marginale, ma credo che siano proprio la somma di tante piccole e grandi esperienze a delineare nuovi orizzonti.


Tratto da "Mettere a reddito la propria casa nel mercato extralberghiero". Acquistalo qui.


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