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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Se non fosse tutto mobbing…

Oggi è stata una giornata difficile. All’ingresso in azienda il solito usciere che mi salutava sorridendo è stato sostituito da un bellimbusto che, dubitando della mia identità, si è fatto mostrare il badge dopo 15 anni di onorato servizio.

Ho poi segnalato al mio capo, minore di me di diversi anni e che mi ha superato nella carriera, che il PC su cui sto lavorando appartiene al jurassico e lui mi ha risposto che i nuovi portatili sono tutti assegnati. Se ne riparlerà ad un nuovo ordine, che non è ancora nemmeno stato messo in budget.


La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è arrivata da un contenzioso con un collega. Ho chiesto spiegazioni del perché non mi avesse coinvolto in un progetto assolutamente pertinente alla mia posizione organizzativa e lui, dopo un’escalation verbale, mi ha attaccato il telefono in faccia.

Il sospetto che a questo punto aveva preso corpo si è tramutato in certezza quando sulla tangenziale ho potuto verificare che un gran numero di persone si erano date appuntamento sulla stessa strada per rallentare deliberatamente la mia faticosa marcia verso casa.

Ormai non ho più ragione di dubitarne: sono oggetto di mobbing.


Per completare il quadro mio marito ha risposto solo con uno “sgrunt!” ad un mio tentativo di conversazione e i due figli adolescenti, dopo aver ingollato la cena senza una parola, hanno iniziato a lamentarsi perché non c’era nel frigo il loro gelato preferito, conseguenza della spesa mancata per colpa degli sconosciuti in tangenziale……”


Diciamoci la verità: quanti di noi potrebbero fare descrizioni analoghe e iniziare una ricerca in internet per gruppi di self help per mobbizzati cronici?


La cosa stupefacente di questo gran parlare del mobbing è il poco spirito critico con cui il fenomeno viene affrontato e il convergere di definizioni, approssimazioni e ricerche che invece di aiutare a comprendere i fenomeni organizzativi, ne aumentano la confusione. Per dirla con Hegel, la classica notte in cui tutte le vacche sono nere.


Il primo dubbio è esiziale. Ma cos’è realmente il mobbing?

Vaccani (2001) ammette: “Il termine ha tuttora diversi significati fra i quali ricordiamo “bossing”, “harassment”, “employee abuse” e lo stesso “bullying”. Tenta poi una prima distinzione tra situazione organizzative che implicano più attori e situazioni a due, escludendo queste ultime dal cosiddetto mobbing.


Nel prosieguo dell’articolo attenendosi alla descrizione operativa fornita dal massimo studioso in materia Leymann, il mobbing viene di nuovo definito come una comunicazione di tipo ostile, diretta in modo sistematico da uno o più individui verso un loro simile, il quale si trova così in posizione di impotenza e mancanza di difese. L’autore ne individua 45 tipologie!!!!!


Il tema sembrerebbe essere quello del “capro espiatorio” con alcune osservazioni di caratteristiche che dovrebbero chiarire il processo quali: alta intensità emotiva, stabilità e ripetitività nel tempo, coinvolgimento di una coralità di persone, funzione di rinforzo da parte della struttura e dei ruoli organizzativi. L’obiettivo di questo processo ha qualche contorsione lessicale: pluspotere di dominio diretto giocato nei confronti dei mobbizzati e un pluspotere di influenza indiretta rispetto agli spettatori.

Caiozzo (2002a) rimarca una distinzione che, se possibile, aumenta la confusione: mobbing strategico come preciso disegno da parte di azienda e management, premeditato e programmato; mobbing emozionale, e qui rientra la dimensione a due che veniva precedentemente scartata, e mobbing senza intenzionalità, e questo contraddice il principio stesso del mobbing.


Infine il mobbing (Caiozzo, 2002 b) viene ridotto al conflitto ed alla sua gestione citando Walter 1993, che peraltro non si ritrova in bibliografia, viene descritto come una situazione in cui: tutti perdono; non si cercano soluzioni o compromessi, ma il conflitto va avanti; si perpetua il conflitto per interessi non visibili o irrazionali; tutti giudicano scorretto il comportamento vessatorio, ma nessuno se ne assume la responsabilità; ognuno ritiene l’altro responsabile dell’escalation del conflitto; non c’è mai stata o non è riconoscibile una motivazione sostanziale; tutti rifiutano di porre il conflitto su un piano razionale e rimangono sulle proprie posizioni percepite come giuste e via di questo passo.


Ege (1997, 1998) uno dei massimi esperti della materia parla, viceversa, di “terrorismo” e “persecuzione” sottintendendo una precisa strategia che articola in fasi (2001): il conflitto mirato, l’inizio del mobbing, primi sintomi psico-somatici, errori ed abusi dell’amministrazione del personale , serio aggravamento della salute psicofisica, per concludere con l’invitabile esclusione dal mondo del lavoro. Parole come pietre, insomma.

Aggiunge, dal suo punto di vista di tedesco residente in Italia, una particolarità geografica del nostro paese: il doppio mobbing! Ovvero dato il familismo imperante nell’italica cultura la persona mobbizzata tenderà a chiedere aiuto alla famiglia (negli altri paese evidentemente ciò non accade) e quindi la crisi si estenderà anche all’universo familiare.


L’apoteosi, a mio parere, viene raggiunta quando, consci della difficoltà a discernere il conflitto dal mobbing si aggiunge una quantificazione, che sembra una posologia: per poter parlare di mobbing bisogna che tali azioni si verificano almeno una volta alla settimana per un periodo di 6 mesi.


E voilà, il gioco è fatto. Se il costrutto è ambiguo, aggiungiamo qualche numero per renderlo più scientifico! Come tale posologia sia stata determinata non ci è dato sapere. Se avviene ogni 15 giorni, ma per un periodo più lungo?


Ma allora cos’è il mobbing? Un conflitto interpersonale ? Una congiura di un gruppo contro un individuo ? L’espulsione del “diverso” ? Una modalità di groupthink di un gruppo molto identificato nella propria mission ed omogeneo culturalmente ? Oppure una comoda scorciatoia di downsizing? Dalla letteratura presa in esame è esattamente tutto questo e molto di più.


Per carità i behaviourist con i costrutti ambigui sono abituati a convivere da anni, vedi alla voce leadership e dintorni. Ma almeno la leadership qualcosa di intuitivo ce l’ha e questo perlomeno giustifica la valanga di inchiostro che è stata sparso per meglio definirla.

Il mobbing invece sembra essere diventato la parola contenitore in cui vengono raccolte tutti gli elementi di asperità comunicativa che si riscontrano nelle organizzazioni.


L’impressione personale è che, partendo il costrutto dalla psicopatologia, l’unico elemento unificante sono i risultati patologici sull’individuo, risultati che visti dalla prospettiva causale possono essere motivati da centinaia di origini, lavorative, individuali, di stress e così via. Come insegna il buon senso, agli effetti andrebbero collegate le cause corrette, altrimenti è difficile parlare di diagnosi.


Il secondo dubbio riguarda la distinzione fra la fisiologia e la patologia delle comunicazioni organizzative. Gli esempi riportati nell’introduzione a cui ciascuno potrebbe aggiungere altri episodi fino ad un elenco infinito descrivono ciò che quotidianamente accade: la fatica di relazionarsi con gli altri, i contorti percorsi individuali e collettivi alla ricerca di un equilibrio che continuamente si perde e che bisogna ritrovare, la maturità di gestione dell’ambivalenza connessa al rapporto con gli altri. Freud bene esemplificava con i famosi porcospini infreddoliti, che si avvicinavano l’un l’altro per ripararsi, salvo poi scoprire di lacerarsi e quindi ripristinare la distanza.


Quando questi processi individuali avvengono in un contesto organizzativo hanno alcune caratteristiche imprescindibili. Innanzitutto, salvo in rarissimi casi, la relazione non è scelta, ma l’organizzazione “costringe” le persone a lavorare insieme. Una differenza notevole rispetto alle relazioni scelte personalmente dell’ambito extralavorativo. La cosa divertente, visti il numero di separazioni con strascichi di recriminazioni , è che spesso la funzione selezione dimostra più competenze dei singoli nella scelta dei partner, anche se lavorativi. Non solo le persone sono “costrette” a lavorare insieme, ma spesso lo fanno in condizioni critiche, di sottostaffing, di elevati carichi di lavoro, di fatica.


L’organizzazione come sottolinea Frost (2003) è un luogo di sofferenza endemico. Il lavoro viene diviso e riconnesso con modalità che solo in minima parte sono a- personali, ovvero procedure o catene di montaggio. Per il resto l’integrazione organizzativa passa attraverso una continua comunicazione, negoziazione, gestione dei conflitti tra persone di funzioni diverse, portatrici di interessi, culture, opinioni e generi differenti. L’enfer c’est les autres, diceva Sartre. Non per nulla il lavoro manageriale è così difficile, così come è difficile lavorare in modo collaborativo in una organizzazione.


Il mobbing rischia di trasformare la fisiologia in patologia, portando la gestione delle relazioni, anche difficili e conflittuali, fuori dall’organizzazione e dai suoi strumenti di governance in senso esteso. E’ necessario quindi ricondurre questi elementi dentro l’ottica manageriale, riproponendo competenze adulte di gestione delle relazioni, di costruzioni di clima vivibile, se non sano, di superamento positivo del conflitto.


Il terzo dubbio è che i teorici del mobbing con le loro interpretazioni univoche danno l’addio alla teoria sistemica della comunicazione. Cosa che mi angustia enormemente non solo perché personalmente ci sono affezionata, ma perché in vent’anni di ricerche e formazione sul comportamento organizzativo ne ho riscontrata la validità empirica molte volte.


Per richiamare la chiave dell’approccio di Bateson e Watzlawick possiamo dire in modo molto didascalico che nessuno può sottrarsi ad una corresponsabilità dell’esito comunicativo. Messa in altri termini, cosa ci mettono i mobbizzati del loro per ottenere quello splendido risultato? Capisco che nella versione dell’apologia del piagnisteo che il film della Comencini mirabilmente sintetizza, dire queste cose può sembrare irriverente, ma non sono anni che nelle aziende vengono erogati corsi di formazione sulla “profezia che si autoavvera”?. Oggi, se qualcuno cade nella trappola di autoconfinarsi nell’esclusione, piuttosto che di “punteggiare” in modo univoco la comunicazione, invece di trovare qualcuno che lo soccorra nell’evitare l’errore, può rivolgersi ad un magistrato che lo difenda come un genitore ausiliario. Nell’universo del mobbing i buoni e i cattivi sono nettamente divisi, i mobber e i mobbizzati, in modo così didascalico e semplificatorio da far tremare qualsiasi osservatore attento dei fenomeni organizzativi.


Le persone, nella realtà, hanno sempre una possibilità di “rinegoziare” la loro posizione comunicativa e organizzativa. Se così non fosse gli universi organizzativi sarebbero ormai simili a quelli concentrazionari, dove tutto il potere sta da una parte sola e ai dipendenti non è concesso che “sommergersi” o “salvarsi” come descriveva Primo Levi.


Ancora un dubbio: supponiamo che un’azienda decida, con una organizzazione del complotto degna di un libro di Grisham, di sintonizzare deliberatamente gli altri contro una persona per costringerla a dare le dimissioni, la domanda è: come ci riesce? I manager non riescono a “sintonizzare” le persone sul budget, sulla modalità di gestione delle procedure informatiche, sulle rendicontazioni dei rimborsi spese. Però riescono a semplificare la complessità che da anni angustia ogni posizione gestionale e uniformare i “sottoposti” all’esercizio delle angherie. Può darsi che la cattiveria sia contagiosa, che il bullismo esca dai confini dell’adolescenza per dilagare nell’età adulta, ma quando accade sono saltati tutti gli elementi di contrappeso organizzativo, si sono rotti i tiranti dell’equità e sono crollate le basi della motivazione.


L’ultimo e più grande dubbio è il concetto di “colpa” che il mobbing porta con sé. Mobbing è diventato sinonimo di cause di lavoro con il correlato di problematicità che questo comporta. Il 4 maggio la Corte di Cassazione si è pronunciata sul fatto che il risarcimento da mobbing discenda dal contratto di lavoro. La corte adotta una sua definizione “pratiche vessatorie, poste in atto da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro” e conclude “affermando che tali comportamenti altro non sono che non violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, rappresentando dei tipici atti di esercizio del potere datoriale posti in essere in violazione del principio di protezione delle condizioni di lavoro oltre che dalla tutela della professionalità prevista dal l’art. 2103 del Codice Civile”.


Una prima riflessione riguarda l’opportunità che temi di natura così complessa diventino oggetto di controversie legali. In una materia che abbiamo visto essere opaca ai limiti della confusione sperare che i magistrati abbiano la serenità d’animo e la competenza organizzativa di discernere il dolo reale da quella immaginato, diventa un obiettivo pressoché impossibile.


Il timore è che la spinta alla controversia legale non possa che nuocere a tutti, lavoratori, sindacati e aziende compresi.

Una seconda riflessione riguarda il rapporto tra cultura organizzativa diffusa e imperio legislativo. L’esperienza personale sui temi della tutela femminile mi ha insegnato che molto spesso l’eccesso di legislazione frena, invece che supportare, lo sviluppo di un sereno clima aziendale. Le onerose leggi di tutela della maternità, tra le migliori del mondo, hanno contribuito a creare nell’imprenditoria un’ostilità pregiudiziale verso le donne con cui ancora bisogno fare i conti. Questo non significa, come qualcuno sostiene, che è necessario delegiferare. L’esperienza costituisce però uno spunto di riflessione sul fatto che l’eccesso di dettaglio legislativo, così come un’applicazione spesso ideologica, finiscono col diventare i migliori alleati della conservazione culturale.


Per concludere l’elemento più importante che, a mio parere, tutto questo parlare di mobbing mette in evidenza è che le organizzazioni stanno diventando sempre più luoghi di sofferenza.


Non è più la fatica della rivoluzione industriale, non è lo sfruttamento descritto da Engels, forse non è nemmeno più la “maledizione biblica”. E’ però una frattura di contratto implicita tra le promesse che molti si aspettavano e che non sono arrivate. Un manager 45enne recentemente licenziato in una delle frequenti ristrutturazioni silenziose, che non compaiono sui giornali perché frutto di negoziazioni individuali e di liquidazioni d’oro, dopo aver passato due anni in una inutile ricerca di un posto di lavoro ed essere passato “obtorto collo” alla consulenza, mi diceva: “Non avrei mai creduto che potesse capitare a me. Ho dato la vita per quell’azienda e cosa ne ho ricavato?”


Allora è il caso che le intelligenze dei ricercatori siano dirette in modo più specifico alla comprensione del fenomeno della sofferenza nella sua interezza. Forse esiste una contraddizione molto grave tra le dichiarazione ostentate della centralità delle persone e la forbice in cui le pratiche aziendali sono chiuse, da un lato la soddisfazione del cliente (con risultati tutti da dimostrare) e dall’altro il contenimento dei costi.


Bisogna capire cosa c’è dietro a questa moda del mobbing, se davvero esprime un sentire che non trova spazio nelle indagini di clima, nelle esortazioni manageriali e nelle pratiche quotidiane. Oppure se la moda è, come spesso è accaduto per le questioni manageriali, montata da epigoni sciocchi e superficiali, più avvezzi a cercare un proprio spazio personale che non a contribuire alla costruzione di una conoscenza della materia seria nelle modalità di ricerca e confrontabile con la comunità scientifica e manageriale.

Il costruttivismo ci ha insegnato che basta articolare un cluster ambiguo, versarci dentro un po’ di tutto, utilizzare strumenti di indagine parziali e confermare le ipotesi. I numeri del mobbing, con queste premesse, sono solo destinati a crescere!



Bibliografia


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