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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Superare il Diversity Management. Come alcune terapie peggiorano le malattie organizzative

Con Alessandra Lazazzara


Abstract


La fase di maturità in cui il costrutto di diversity management si trova, accanto alla crescente diffusione delle sue applicazioni, hanno portato a delle riflessioni in chiave critica sul concetto di diversità e sulle sue applicazioni organizzative. Il presente lavoro intende mettere in discussione le pratiche di gestione della diversity all’interno delle organizzazioni e il concetto stesso di diversità attraverso una revisione dello stato dell’arte del diversity management e approfondendo alcuni aspetti controversi della gestione della diversità in azienda che spesso ne inficiano l’efficacia quali: le dinamiche di inclusione o accentuazione dello stigma; la connessione tra il diversity management e le pratiche di gestione delle risorse umane; il vantaggio competitivo creato dalla gestione della diversità; il legame tra diversity management e comunicazione e la misura dell’efficacia delle pratiche di diversity management.

Viene proposto, inoltre, un nuovo framework teorico in cui il concetto di diversità viene sostituito da quello più inclusivo di “pluralità”. Secondo questo approccio ogni persona è diversa da qualsiasi altra perché è la costruzione stessa dell’identità che porta a una miriade di sfaccettature che non possono essere appiattite su una singola caratteristica e la diversità è meglio compresa se si considera l'influenza dei diversi aspetti della diversità congiuntamente piuttosto che separatamente per ciascuna dimensione.

Introduzione


Fino a pochi anni fa considerato un fenomeno sotto teorizzato e poco studiato nella letteratura manageriale (Prasad e Mills, 1997), il Diversity Management (DM) è diventato oggi un argomento di portata globale molto dibattuto sia nei contesti accademici e di ricerca che in quelli organizzativi. L’affermarsi di questa etichetta manageriale procede di pari passo con l’ampliarsi delle problematiche e delle categorie cui è applicata, ma anche delle critiche sostanziali a cui è sottoposta fino a giungere alla situazione paradossale per cui le prassi relative al DM vengono accusate di peggiorare, anziché ridurre, l’esclusione di alcune persone nel contesto organizzativo perché appartenenti ad una particolare categoria (Prasad e Mills, 1997; Greene e Kirton, 2011).


Quasi che l’accendere il riflettore sulle diversità individuali, invece che aiutare a superare la percezione di esclusione di alcuni segmenti di persone, ne accentui il distacco dagli “altri” e sia potenzialmente la causa proprio di quei conflitti che si volevano evitare. Anziché creare un’atmosfera di rispetto e tolleranza nei contesti organizzativi dunque, il DM viene accusato di generare ostilità e antagonismo da parte di chi viene gestito secondo un approccio di DM (Lorbiecki e Jack, 2000).


Questo fenomeno si radica in due aspetti tra loro collegati: da un lato la definizione di “diverso” implica il differenziarsi da un gruppo che viene ritenuto più “omogeneo”, ovvero che non presenta quei tratti a rischio di esclusione, ed il primo vero problema consiste nel demarcare questa ipotetica linea; il secondo riguarda l’affermarsi collettivo degli stereotipi relativi alla diversità. Ad esempio le donne, trattate in un contesto di DM, rischiano di vedere accentuata la distanza che le separa dagli altri, invece che vedersi “incluse” nel contesto più ampio; così come programmi formativi che prevedano una suddivisione dei partecipanti sulla base del criterio anagrafico porterebbe ad amplificare ulteriormente gli stereotipi legati all’età piuttosto che rispondere alle esigenze di stili formativi specifici.


Queste due contraddizioni basilari non devono condurre ad un rifiuto delle politiche di gestione delle diversità, che comunque vanno attuate perché esistono problemi reali di potenziale esclusione di segmenti di popolazione organizzativa, ma devono indurre a delle riflessioni più articolate e meno superficiali, per supportare davvero la costruzione di un contesto inclusivo secondo un approccio di gestione integrato.


Questo articolo mette in discussione il costrutto stesso di “diversità” che implica una distanza da uno stato ritenuto uniforme, accettabile, per sostituirlo con quello di “pluralità”, cioè con l’idea che ciascuna persona è diversa da qualsiasi altra perché è la costruzione stessa dell’identità che porta a una miriade di sfaccettature che non possono essere appiattite su un singolo elemento della “diversità” (come l’essere donne, disabili, oppure avere un certo orientamento sessuale). Questa revisione del costrutto implica anche un approccio organizzativo differente che dovrebbe rendere consapevoli i manager dalle problematiche connaturate alla gestione delle persone e delle diversità relative, e supportare i collaboratori nella gestione delle eventuali conflittualità in agguato tra persone che hanno background, idee e valori differenti. Una capacità di questo tipo dovrebbe rientrare nel profilo di competenze di base di ogni manager e far parte a pieno titolo dei programmi di formazione manageriale a qualsiasi livello, integrando il corpus di iniziative dedicate al comportamento organizzativo con un approccio più mirato alla gestione della diversità.


La conclusione che si vuole trarre è che il DM non dovrebbe più essere concepito come un progetto aggiuntivo da costruire on top alla gestione delle persone, ma i suoi dettami dovrebbero costituire uno spunto importante nella revisione dei sistemi di gestione, con l’individuazione di eventuali discriminazioni implicite, e supportare in attività formative e di consapevolezza manageriale da inscriversi nel comportamento organizzativo quotidiano.


Il miglior risultato che può raggiungere il DM dunque, intesa come una strategia manageriale consolidata e armonicamente gestita tra le funzioni specifiche e la linea, è di scomparire nella gestione del personale. Questa scomparsa, però, non può prescindere da alcuni elementi fondanti la gestione delle diversità che sarà necessario tenere presente per la costruzione di prassi che siano realmente efficaci, soprattutto relativamente ai segmenti tradizionalmente a rischio di esclusione.


L’articolo è disponibile al link:



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