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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Organizzare e gestire persone: insegnamenti dalla Regola di S. Benedetto

P Ignasi M. Fossas i Colet , dopo tre anni di lavoro come medico, nel 1986 entra nel Monastero di Montserrat (Barcelona) e fa la professione monastica il 3 settembre 1988. Da allora ottiene il Diploma di Archivistica presso l’Archivio Segreto Vaticano (Vaticano 1995), e la Licenza in Liturgia (Pontificio Istituto Liturgico Sant Anselmo, Roma 1993-1996). Ha seguito un corso di formazione manageriale presso l’IESE-Business School di Barcelona (PADE 2007) che lo ha avvicinato ai temi del management e dell’organizzazione. Attualmente è Professore di Teologia nello Studium di Teologia di Montserrat e presso l’Istituto Superiore di Liturgia di Barcelona; da ottobre 2000 è portavoce del Monastero di Montserrat e dal dicembre 2005 è Cellerario-Amministratore e da aprile 2007 è anche vice-priore dello stesso monastero.


Abstract

Correva l’anno 500 e sullo sfondo della dissoluzione dell’Impero Romano, un giovane di Norcia decise di ritirarsi dal mondo per intraprendere la via monastica. San Benedetto, dopo un periodo vissuto da eremita, si propose di dedicare la vita ad altri monaci e fondò una vasta comunità di dodici monasteri, ognuno con dodici monaci e un abate, con il compito di guida. Per organizzare la comunità egli, negli anni successivi compose una Regola, prendendo spunto da alcune precedenti, ma rielaborandole in modo sostanziale, combinando l’insistenza sulla buona disciplina con il rispetto della personalità umana e delle capacità individuali.

I due cardini della vita comunitaria sono l’idea di stabilitas loci (l’obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero distinguendosi dai monaci itineranti allora molto diffusi), e la conversatio morum, cioè lo stile di vita proprio dei monaci, la pietà reciproca e l’obbedienza all’abate, cardine di una vita ben ordinata nella quale si alternano preghiera, lettura e lavoro.

Due le intuizioni che da quel tempo lontano risuonano nelle nostre vite moderne e che ci fanno riflettere non solo da un punto di vista individuale ma anche organizzativo e di sensemaking. La prima l’esplicitazione di una Regola che, avendo come obiettivo la costruzione della coesione interna in gruppi di monaci tra loro molto distanti e soggettivamente autosufficienti, riuscisse a definire senza ingabbiare delle modalità di convivenza il più possibile armoniche ed efficaci. La seconda è l’inserimento del lavoro, a pieno titolo, nella costruzione dell’identità individuale. La proposta “ora ed labora” supera l’isolamento del monaco che deve dedicare la sua vita alla preghiera, e lo restituisce ad una comunità operosa, che si confronta con la sopravvivenza quotidiana, senza nulla togliere allo spessore della vita spirituale.

Il lavoro che viene presentato intende rileggere il contributo di San Bendetto nella sua modernità, sottolineando come, ben prima delle scuole manageriali, un gruppo sociale dovesse confrontarsi con alcuni elementi costanti quali la definizione di alcuni ruoli organizzativi, la descrizione di regole bilanciate tra riproducibilità e ufficialità, da un lato, e libertà di interpretazione dall’altro.

Questi elementi, associati alla descrizione di una leadership concreta, quella dell’Abate, liberamente eletto dal gruppo, ma poi depositario di un potere molto elevato, e alla elaborazione di un sistema motivazionale e correttivo, rendono la rilettura della Regola Benedettina non solo un momento interessante dal punto di vista storico e culturale, ma anche uno spunto di riflessione circa gli elementi costanti che caratterizzano una comunità sociale, impresa compresa.


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Indice

Introduzione

1. Il disegno organizzativo e gli equilibri manageriali

2. Costruire l’armonia sociale

3. Crescita individuale

Conclusioni

Bibliografia

Introduzione

L’attenzione verso la Regola Benedettina e il suo paragone con il business non è nuova Ci sono alcune esperienze che vanno avanti da anni, e che hanno come promotori monaci benedettini – e quindi esperti nella Regola e nella vita monastica – che allo stesso tempo conoscono bene il mondo delle aziende e del management. Si può citare, in concreto, P. Anselm Grün, cellerario dell’abbazia di Münsterschwarzach, in Germania, o P. Dermot Tredget dell’abbazia di Douai, in Inghilterra. In ambito italiano c’è l’esperienza proposta dal prof. Paolo G. Bianchi nell’abbazia di Praglia e in altre abbazie italiane.

Nonostante la disomogeneità degli approcci e le sfumature particolari di queste tre proposte, esse descrivono un interesse che sta crescendo e che certamente contiene in sé molti elementi positivi. D’altro canto è anche necessario avere alcuni dubbi quando un tema diventa “di moda”. E, quindi, potrebbe essere pertinente porsi alcune domande fondamentali di fronte al rapporto tra la sapienza monastica benedettina, che si esprime nella Regola e nella vita dei monasteri che la seguono, e il business: è serio tutto questo? è verosimile e pertinente? può diventare realmente utile ai manager o a qualsiasi che sia interessato alla leadership? è necessario ai nostri giorni?

In altre parole la riflessione fondamentale che abbiamo posto a base di questo contributo è quanto uomini e donne d’affari potrebbero utilizzare spunti proposti dalla Regola per migliorare atteggiamenti e abilità e, di conseguenze, la propria capacità di esprimere una leadership originale. Non c’è il pericolo di “giocare a fare il monaco”, aggiungendo così un’”esperienza” in più all’elenco già assai lungo di cose strane e con poco senso che si proppongono ai leader per stimolare il loro interessamento?

Un rischio concreto che affonda le proprie radici sia nella necessità delle società di consulenza e formazione di offrire esperienze originali, dall’outdoor training, alla vela, passando per l’arrampicata in solitaria, sia nelle tendenze new age e misticheggianti che propongono, rivisitati, i ritiri spirituali di matrice cattolica.

In questo contributo sfidiamo il rischio moda, unendo due esperienze molto diverse tra loro, quella monastica e di gestione di un monastero, con una lettura organizzativa e gestione delle persone, per dimostrare che, effettivamente, nonostante i moltissimi anni trascorsi, S. Benedetto avesse avuto delle intuizioni molto interessanti che dimostravano una capacità sia di osservazione che di astrazione veramente rare a quel tempo.

L’idea è di attingere alla sapienza benedettina, che si esprime nella Regola, per aiutare altre persone in un processo di riflessione, di sosta personale per rivedere il senso della propria vita e del proprio lavoro. L’operazione ci è sembrata interessante in quanto l’autore della Regola appare come un profondo conoscitore del cuore e delle pulsioni umane, che danno luogo a dei comportamenti che non sembrano molto modificati da allora, anzi si ripropongono anche nella loro dimensione oscura e pericolosa, costantemente lungo la storia dell’umanità.

Leggendo la Regola dal di fuori, con occhi “laici”, si scoprono tante proposte di “buon senso” che si anticipano molti degli studi successivi sulle modalità di gestione e coesione di un gruppo organizzato.

La proposta di avvicinarsi alla sapienza benedettina è anche verosimile perché viene fondata dall’esperienza concreta dei monaci e delle monache benedettine lungo i secoli. I monasteri rappresentano la concretizzazione, in un tempo e in un luogo reali, dell’ideale proposto dalla Regola. Il termine “monastero” evoca spesso immagini romantiche, di silenzio e solitudine immersi in una natura incontaminata. Come dice un confratello di Monserrat con ironia: “il monaco, il chiostro, il cipresso e la luna”. Segno che la proposta del ritiro, del silenzio e della riflessione, riecheggia comunque nei desideri di ciascuno, anche se in modo spesso fantasioso e irreale. Un altro aspetto spesso sottolineato è che i monasteri, nei secoli bui della dissoluzione, hanno salvato la cultura antica e hanno contribuito ad edificare l’Europa.

A questi aspetti noti se ne aggiungono altri meno conosciuti, come il fatto che alcuni monasteri hanno costruito delle aziende vere e proprie, con molti collaboratori e con un’organizzazione professionale, giocando alla pari con le leggi del mercato, con monaci in posizioni di responsabilità che devono agire responsabilità manageriali.

Queste sono le persone che più di altre uniscono al pensiero gestionale moderno una sapienza monastica antica, accumulata lungo i secoli nella tradizione della propria comunità. Da questo punto di vista è possibile affermare che la proposta di lettura della Regola in parallelo al business non è un’idea astratta, ma sottoposta ad un controllo di realtà e ad un bagno di concretezza, in tanti monasteri. I risultati, in linea di massima, sembrano positivi. Questi monaci hanno attinto alle scuole manageriali per apprendere quanto loro mancava in termini di professionalità.

Noi oggi proponiamo un altro scambio: dare ai manager alcuni spunti della sapienza benedettina perché la possano utilizzare nel migliorare le proprie abilità e competenze. In un contesto sociale ed economico che appare molto in difficoltà, i contributi che attingano a patrimoni diversi possono essere di grande utilità.

Per meglio sviluppare una proposta di confronto tra la tradizione benedettina e il mondo aziendale, si propone di riorganizzare il parallelismo su tre livelli: organizzativo, sociale e individuale. Il livello organizzativo fa riferimento al disegno strutturale, ai rapporti tra i responsabili e le persone che ne dipendono, alle scelte di natura politica e alla rigidità o flessibilità delle modalità scelte.

Il livello sociale o delle regole include i rapporti interpersonali, la dimensione orizzontale e le sue conseguenze all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Finalmente, il livello individuale ha a che fare con tutto quanto fa parte del’”io-interiore”, del proprio progetto personale e della persona vista nel suo insieme, un aspetto che solo qualche organizzazione considera nella sua interezza e che spesso viene limitato al “vantaggio organizzativo” dello sviluppo dei cosiddetti alti potenziali, dimenticando gli altri come accessori nella vita dell’organizzazione. La riflessione intorno a questi tre livelli contribuisce ad aprire il tema della leadership che risulta, in questo modo, trasversale ad essi. In questo tra temi gestionali e saggezza benedettina, inoltre, metteremo in evidenza, in ognuno di questi livelli i principali equilibri che la coesione di una comunità comportano. Ciascuno di essi, a nostro parere, costituisce l’essenza di una buona organizzazione.


  1. Il disegno organizzativo e gli equilibri manageriali

L’idea stessa di organizzare racchiude la principali problematiche a cui essa cerca di rispondere: dirigere un gruppo più o meno grande di persone verso un comune obiettivo, raggiungendolo in modo coerente, con un dispendio ragionevole di risorse, garantendo, al tempo stesso, lo sviluppo professionale e personale dei soggetti coinvolti in questo sforzo. Una sintesi questa che può apparire utopistica, ma che mette in relazione i tre equilibri fondamentali il cui tradimento rischia di invalidare la vita stessa dell’organizzazione: i risultati, le risorse utilizzate per raggiungerli e le persone che in essa spendono la loro vita (fig. 1).


GLI EQUILIBRI MANAGERIALIPrescrizioni organizzative Libertà individualeRisorseRisultatiModello univoco o accentratoSpecificità locali - decentramentoDesignazione posizioni d’autoritàElezione - followership

Fig. 1




Un primo equilibro manageriale che la Regola suggerisce ai manager, pur essendo trattato nelle ultime pagine del testo, è quello tra rigidità delle prescrizioni organizzative e libertà individuale. L’idea che ispira San Benedetto è di dare uno strumento ai diversi Monasteri, che consenta ai monaci di operare in modo autonomo, ma al tempo stesso disciplinato, con alcuni punti di riferimento precisi, ad esempio i ruoli nella comunità, ma anche con una flessibilità sostanziale di adattamento alla situazione di contesto. Questo principio ispiratore che attraversa tutta la Regola, diviene esplicito nel cap. 65, dove nella scelta del Priore si lascia all’Abate la comprensione delle specificità locali e la scelta della migliore organizzazione. Inoltre, a differenza degli ordini religiosi tardomedioevali e moderni, la scelta Benedettina è di non avere una sovrastruttura oltre i monasteri, ma un unico coordinamento.

Quindi, ogni monastero conserva la sua indipendenza a tutti i livelli, mentre le strutture superiori che li ragruppano (congregazioni e finalmente la confederazione benedettina) compiono funzioni di aiuto, rappresentanza e in certi casi anche di supervisione.

Un tema questo fondamentale soprattutto in organizzazioni dove la dimensione e l’estensione geografica necessiterebbero un maggiore orientamento alla lettura dei contesti locali, pur con delle direttive di natura generale. L’impressione è che invece, nella situazione attuale, le grandi aziende multinazionali privilegino l’accentramento, distribuendo modalità precise a cui rispondere, addirittura proponendo una formazione accentrata a supporto di strumenti di cosiddetta trasparenza che, in estrema sintesi, rassicurano il gruppo dirigente circa la costanza e la precisione dei flussi informativi bottom- up, più che dare reale supporto al raggiungimento dei risultati, una dimensione autopoietica veramente rischiosa.

La Regola propone, poi, alcune posizioni organizzative precise: l’Abate, il Priore, il Cellerario, e il Portinaio, il Maestro dei novizi oltre che il Consiglio dei decani e il Capitolo della comunità (cioè l’insieme di tutti i monaci professi silenni)

L’Abate è sicuramente la figura centrale, su cui insiste la regola anche per l’importanza delle scelte ad esso demandate e per il ruolo di esempio che ne deriva.

Una prima importante considerazione è che l’Abate viene eletto dalla comunità dei monaci. In questo caso la Regola trova un equilibrio in un altro dei temi fondamentali del management: l’essere designati dalla proprietà o dal consiglio d’amministrazione e la legittimazione sul campo. Nei Monasteri benedettini l’Abate deve, in primo luogo, conquistarsi una reputazione, e solo attraverso essa, e quindi l’elezione da parte della comunità, potrà poi esercitare il potere che la Regola conferisce.

Il Priore è il “numero due” nella comunità; è il principale collaboratore dell’abate e lo sosituisce quando questo è assente del monastero. La Regola ne parla nel cap. 65 e tiene conto subito dei rischi che può comportare questa figura (e qui San Benedetto fa vedere la sua profonda intuizione psicologica). Il Cellerario, descritto nel cap. 31, è il responsabile dell’amministrazione del monastero; si deve prendere cura di tutti e di tutto e dev’essere come un padre per tutta la comunità, sempre però secondo le indicazioni dell’abate. Il Portinaio, cap. 66, è per così dire “la prima faccia” che trovano gli ospiti, è colui che ha un rapporto diretto con l’esterno; bisogna che sia capace di ricevere e di dare una risposta e al tempo stesso sia abbastanza maturo per non “andare vagando”. Il Maestro dei Novizi, cap. 58, dev’essere anche un anziano “che sappia guadagnare le anime”; lui “veglierà sui candidati con la massima oculatezza e osserverà con attenzione le vere motivazioni che li hanno portato in monastero. Facile trovare qui i parallelismi con il responsabile della Direzione di Persone. La figura dei Decani, di cui parla la Regola nel cap. 21, riflette l’organizzazione della comunità preferita da san Benedetto; i decani sono fratelli che hanno la fiducia degli altri e sono esemplari nella sua vita; hanno il compito di aiutare l’abate nel governo della comunità. Qui è facile sviluppare il tema della delega.

Finalmente c’è il Capitolo della Comunità; la Regola, nel cap. 3, invita l’abate a convocare la comunità per tattare le cose importanti; lì deve esporre personalmente l’argomento in questione e ascoltare il consiglio dei fratelli; “dopo aver riflettuto dentro di sé, faccia quanto riterrà più oportuno”.

La sapienza monastica attraverso la figura dell’abate, e cioè del leader, del massimo responsabile del monastero, esprime la sua visione della leadership. La Regola dedica due capitoli a parlare specificamente dell’abate: il 2 e il 64. Per di più, i capitoli 27 e 28 completano la dottrina sul modo di esercitare il governo abbaziale con le metafore del buon medico e del buon pastore.

Primo elemento fondamentale per la leadership dell’abate è la coerenza di vita, l’esemplarità (RB 2, 13 e 64, 2), il fatto di mostrare ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare, con il proprio attegiamento, con il proprio modo di lavorare, di trattare gli altri o di affrontare le situazioni. Qui si trova l’origine dell’autorità. Non si dovrebbe confondere autorità e potere.

La parola autorità trova la sua radice nel verbo latino augere che significa crescere. Il leader che ha autorità è quello capace di far crescere le persone che gli stanno accanto. Così arriviamo a un altro elemento: l’autorità si esercita per il servizio degli altri (R 64, 8 e 15), i quali devono essere trattati con eguaglianza e con equità (RB 2, 22 e 23). L’autore della Regola è molto consapevole della realtà del cuore umano, e quindi della diversità psicologica e spirituale tra i monaci.

A questo punto è compito dell’abate discernere le possibilità e le necessità reali di ogni monaco. Realismo senza cinismo. Questo implica per l’abate la capacità e l’abilità di ascoltare tutti, anche coloro che sono secondo le abitudini culturali meno valutati (e che al tempo di Benedetto erano i giovani) (RB 3, 3). Un tale atteggiamento non è sinonimo di debolezza o di poca chiarezza nelle decisioni o nei messaggi da trasmettere. Anzi, la Regola chiede all’abate decisione con flessibilità (RB 68). Un ultimo elemento da sottolineare è la fiducia nei rapporti personali nella responsabilità di ognuno di fronte all’incarico ricevuto. Anche se l’abate dovrà rendere conto a Dio per tutti i monaci, la Regola lo spinge a esercitare al massimo la “delega” di tanti aspetti, sopratutto della gestione.

Interessante, a questo proposito, come la Regola interpreti un altro degli equilibri fondamentali della managerialità: il tema dell’equità e quello della diversità. Ogni persona che gestisce un universo organizzativo si trova spesso di fronte a due richieste, spesso tra loro contraddittorie: da un lato il bisogno fondamentale delle persone di equità si esprime nella richiesta di essere trattati da eguali, senza discriminazioni o differenziazioni. Un elemento base anche per la motivazione individuale, che viene profondamente erosa nei contesti percepiti come non equi. D’altro canto, in numerosi momenti della vita organizzativa è necessario comprendere le situazioni individuali e cercare di adattare la filosofia dell’equità ad alcune eccezioni che non la vanifichino.

La Regola propone (2,31) in primo luogo una capacità di ascolto individuale, per meglio supportare i diversi individui nella loro strada di crescita: con alcuni è meglio utilizzare il rimprovero, con altri il supporto o, ancora, la persuasione. Una proposta di gestione della diversità interna al processo organizzativo, con differenti modalità di motivazione individuale.

Successivamente (34,1) viene proposto l’elemento del bisogno individuale come misura dell’allocazione delle risorse. Una modalità molto complessa e rischiosa, ma che richiama uno degli elementi della pluralità individuale (Bombelli, 2009), spesso sottovalutati, quello del bisogno. Nelle teorizzazioni spesso vaghe circa il Diversity Management si fa ogni erba un fascio senza distinguere due elementi fondamentali nelle varie descrizioni di aspetti individuali, che li attraversano in modo coerente: le differenze individuali relativi alla prestazione, il cui riconoscimento e valorizzazione passa per la messa in campo, da parte dell’organizzazione, di strumenti di gestione del personale sempre più raffinati ed adatti allo scopo di riconoscere e sostenere il merito, e le differenze che invece vengono espresse in particolari momenti della vita e che sono relative ai bisogni degli individui.

Qui la regola introduce un principio che richiama il Manifesto di Marx Engels “da ciascuno secondo le proprie possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni” che sicuramente non ha avuto una grande realizzazione nella concretezza dei regimi che ad esso si sono ispirati, ma che a livello filosofico introduce un principio che non può essere ignorato: i “bisogni” hanno una gerarchia e, quindi, i leader e le organizzazioni devono avere sufficiente flessibilità per discernerli e per poter decidere a quali di essi dare risposta, sopraprattutto quando essi sono al di fuori delle normali prassi dovute dalla legge e dalle consuetudini.

La Regola completa questo elemento con il cap. 36, riferendosi ai doveri verso i fratelli malati, e al successivo, quando si parla di Vecchi e Fanciulli. Facile ascrivere questa scelta al dovere cristiano, ma dal punto di vista organizzativo suggerisce il come e il quando è necessario, per il contesto, farsi carico delle esigenze individuali.

Nella prassi aziendale attuale, questo capitolo contiene la Responsabilità Sociale d’Impresa, quando questa etichetta non viene usata per comunicazioni patinate, ma come elemento sincero di integrazione con la comunità sociale di riferimento.

Un ultimo elemento che ci sembra importante ricordare è il controllo che viene esercitato dall’esterno sull’andamento della comunità tramite la cosidetta Visita Canonica. Ogni quattro anni, all’incirca, due confratelli di altre comunità arrivano al monastero con l’intento di intervistare ed ascoltare ciascuno relativamente alla situazione del monastero. E’un momento in cui tutti possono dire liberamente le proprie opinioni e in cui si mette in atto una verifica, vista con occhio esterno, che potrebbe portare anche a consigliare all’Abate le dimissioni e/o alla comunità di cambiare alcuni atteggiamenti.


  1. Costruire l’armonia sociale

Fa riferimento ai rapporti interpersonali e all’insieme della “comunità”. Nel Monastero bisogna distinguere tra la comunità monastica, in cui gli individui sono interamente coinvolti, e la comunità di lavoro che raccogli persone del circondario in progetti di natura “aziendale” con uno scopo molto più concreto e circoscritto. Una distinzione chiara nella comunità benedettina, ma che offre spunti di riflessione manageriali circa i confini della propria attività: attualmente molti manager hanno una dedizione quasi “monacale” al proprio mandato organizzativo.

Complici le tecnologie, ma anche una incapacità a distinguere sé stessi dal proprio ruolo organizzativo, spesso scompaiono i confini spazio / temporali e il lavoro invade, in modo totalizzante, l’identità individuale. Un primo elemento della comunità benedettina è servire per la crescita mutua (RB 64, 19). Nei nostri giorni si pone spesso il problema o la tensione, per ogni monaco, tra il progetto personale e il progetto comunitario. Solidarietà e rispetto per ogni persona sono atteggiamenti fondamentali (RB 63, 10; 71, 1-3; 72).

Qui ritroviamo il tema del dialogo, che deve essere affrontato con umiltà, senza ostinazione né polemica, con libertà e chiarezza, senza accezioni di persone, con pazzienza e opportunità (RB 3 e 68). Un aspetto che diventa anche attuale è la serietà nell’ammissione dei candidati, un punto sul quale Benedetto non fa concesioni al “buonismo” e si mostra esigente (RB 58,8). È importante la fedeltà alla tradizione con lo scopo di imparare e migliorare, faccendo i dovuti adattamenti a seconda dei mutamenti dei tempi. Riprenderemo a livello individuale questa tensione tra progetto organizzativo, comunitario e di vita individuale, come uno degli elementi di equilibrio che si stanno, in questo lavoro, mettendo in luce attraverso il confronto tra la Regola e l’universo aziendale (fig. 2).

Un ulteriore aspetto interessante che la Regola introduce è l’itinerario delle decisioni. Come abbiamo già detto, nel cap. 3 si dice: “Ogni volta che in monastero si deve deliberare qualcosa d’importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga lui stesso di che si trattta; dopo aver ascoltato il parere dei fratelli, rifletterà per conto suo e quindi farà quello che avrà ritenuto più vantaggioso”. In questo modo si introduce una differenza tra decisioni strategiche su cui coinvolgere l’intera comunità e quelle più quotidiane, affidate ai diversi ruoli.

Nello stesso capitolo si suggerisce ai fratelli di dare i loro consigli e pareri, ma poi di attenersi alle decisioni prese dall’Abate. Così, per le decisioni su temi minori e affari quotidiani l’abate dispone del Consiglio dei Decani, del Priore e dei responsabili delle diverse sezioni del monastero.

In questo campo, crediamo che molti manager vorrebbero avere dai loro sottoposti, un analogo voto di obbedienza, ma il tema, al di là del contesto monastico e religioso a cui si ispira, è di grande attualità. In management necessità di disegnare nell’organizzazione livelli decisori, il più trasparenti possibili, afferenti a diversi ambiti di scelta, tra la strategica e la quotidiana. E questo è un tema di disegno e di regole, sempre molto complesso per ogni organizzazione.

Ma l’altro aspetto, afferente più alla cultura organizzativa, è quello di incentivare un equilibrio, l’ennesimo, tra conformismo e eccentricità. Molte organizzazioni oggi carpiscono l’obbedienza attraverso le mode, che ispirano modalità univoche, spesso implicite, sia di pensiero che di comportamento. Non si spiegherebbe in altro modo l’assenza di dialettica e di proposizione che spesso caratterizza i board delle grandi aziende. D’altro canto esistono spesso delle sacche di dissenso ipercritico, soprattutto a livello di operativi, guidate da persone più interessate a mantenere il proprio status di “capi popolo” che agli interessi collettivi reali, che diventano un ostacolo permanente effettivo alla vita della comunità.


GLI EQUILIBRI SOCIALICrescita organizzativaSviluppo individualeTradizione InnovazioneConformismoEccentricitàDecisioni collegialiDecisioni individualiLiturgiaSpettacolarizzazione


  1. Crescita individuale

Concerne il monaco e il suo “io interiore”. Nella sapienza monastica è molto presente il lavoro dell’autoconoscenza, anche qui il realismo senza cinismo, che si esprime nella frase greca “conosci te stesso”, oppure nell’aforismo latino “operari sequitur esse” (=le azioni, i fatti sono conseguenza di ciò che si è). Conoscersi in proffondità per crescere in libertà interiore (RB Prologo 1 e 49).

Questo significa essere consapevole del proprio mondo interiore, con i desiderri, le pulsioni, gli affetti, le abilità e le zone di ombra che lo compongno. Nel suo libro Guidare le persone risvegliare la vita, commentando il capitolo 31 della Regola sul cellerario, P. Anselm Grün mostra fino a che punto chi riceve la responsabilità di una leadership deve affrontare il proprio mondo interiore. Qui possiamo riprendere il primo livello, ricordando che l’abate è anche un monaco, e quindi deve avviare il suo personale processo spirituale, umano, di maturazione e di crescita interiore.

In questo lavoro di autoconoscenza, che alle volte è anche una fatica, diventa fondamentale per il monaco la “lectio”, cioè la lettura della Bibbia come confronto con una Parola che ci precede e che ci supera, e che allo stesso tempo è più interiore a noi che noi stessi. Umiltà (RB 7) e obbedienza (RB 5) sono due altri aspetti da sottolineare, siccome la disponibilità personale per migliorare l’esecuzione e la cooperazione nell’insieme della comunità, che è più della somma dei suoi individui. Si veda quanto dice RB 57 sugli artigiani nel monastero. Finalmente, sottolineare la visione proffondamente umana della Regola, che cerca di organizzare il lavoro di ogni monaco cercando il bene della persona e della comunità (RB 48); su questo punto l’abate deve aver riguardo per la debolezza dei fratelli malati o di salute cagionevole (RB 48, 24)

In questo campo l’azienda privata deve scegliere: se costruire a fianco del contratto giuridico, che non implica nessun impegno certo allo sviluppo delle persone e alla ricerca della propria identità più profonda, un contratto psicologico che propone ad essere un itinerario di crescita, non solo professionale, ma anche personale.

Facile dire che sarà così, ma spesso questo elemento è più dichiarato che praticato. Diversi aspetti strutturali congiurano contro questa possibilità: il primo di natura prettamente economica. Quando i venti di crisi soffiano con forza il primo contratto che salta è quello giuridico, trascinando con sé ogni aspettativa più ampia e riportando le persone ai livelli più essenziali dei loro bisogni: un posto di lavoro ed un salario che consenta di sopravvivere.

E’ questo un aspetto centrale nella crisi che il mondo intero sta attraversando e che si evince da diversi comportamenti sia dei detentori delle aziende che del management: come comportarsi responsabilmente verso i propri collaboratori? Alcuni non se ne curano, e i primi interventi di razionalizzazione sono tagli, profondi e pesanti, al personale. Altri cercano vie di mediazione, tentano di mantenere compatto il gruppo, in attesa di tempi di migliori, anche pensando che, quando il motore dell’economia riprenderà a girare, sarà un vantaggio avere conservato competenze e culture.

Ma anche pensando ai tempi migliori, quanti a livello di vertice, sono disponibili a tentare delle strade di coinvolgimento delle persone, tanto da cercare di supportarle nell’itinerario del “conosci te stesso” sopra delineato?

Eppure questo è un elemento che, nelle economie occidentali, almeno nelle aree di lavoro affrancate dei bisogni fondamentali, viene sempre più richiesto dai singoli. Circola nelle aziende una domanda di senso che non si può ignorare e che spesso viene disattesa.

Un elemento centrale è quello del tempo. Ritorna nella sapienza benedettina, che prima tra gli ordini monastici affianca il lavoro alla preghiera, una cadenza temporale che suggerisce molte riflessioni ai manager (Grun, 2006).

In primo luogo la scansione tra lavoro e preghiera dà la misura della necessità di intervallare un pensiero concentrato ai problemi, da uno più distante ed ampio, che prenda in considerazione aspetti più vasti. I manager sempre di corsa, sempre connessi, concentrati, senza respiro, rischiano di compiere dei gravi errori nei loro processi decisori.

Il tempo dei monaci è scandito nel giorno, nella settimana, nel ciclo liturgico. Una modalità temporale che consente di rispondere a diversi obiettivi: il lavoro, il ritrarsi dentro si sé a meditare, il ritrovarsi in una comunità, scandendo il tempo dell’anno e delle stagioni. Dimensioni dimenticate nel grigio di una vita climatizzata e sempre uguale a sé stessa, dove anche lo sport viene ridotto a correre su un tappeto mobile davanti ad uno schermo a cristalli liquidi, esprimendo la stessa libertà dei criceti nelle loro patetiche ruote.

In particolare manca agli individui il tempo della presa di contatto con sé stessi, unica base su cui costruire la vera crescita personale. Interessante come la contemplazione che è un “pregare senza parola, senza immagini e senza pensieri” (Grun, 2006 cita Evagrio Pontico) sia affine alla Meditazione, in tutte le forme orientali. Momenti in cui fermarsi, concentrarsi sul proprio respiro, entrare dentro di sé per ascoltare e fare silenzio.

Ecco un altro elemento di grande suggestione, quello del silenzio. Se esso può rappresentare uno degli elementi di suggestione al di fuori del monastero, contribuendo a creare un’immagine romantica poco radicata nella realtà, è altrettanto vero che il rumore della vita secolare oggi rischia di contaminare qualsiasi tentativo di introspezione e riflessione.

Anche i percorsi formativi spesso sono una sommatoria di stimoli, visivi , auditivi, coinvolgenti le persone in attività complesse, mentre poca parte è riservata al semplice osservare. Silenzio significa saper convivere con sé stessi, cosa che, come ogni monaco sa, si ottiene solo dopo un percorso non sempre facile. Fare silenzio è un punto di arrivo e anche uno di partenza verso la lettura della Scrittura (la lectio divina), la preghiera, la contemplazione (fig. 3).

In questo itinerario si compie la leadership benedettina, che è esempio, come abbiamo già sottolineato, ma anche sobrietà e misericordia. Riportiamo ancora alcuni dei consigli che da all’abate nel cap. 64: “Anche nel correggere agisca con prudenza e sia attento a non eccedere perché, mentre lui vuole raschiare via troppo la ruggine, non si spezzi il vaso. Non perda mai di vista la propria fragilità e ricordi che non si deva calpestare una canna già piegata” …. “Non sia causa di agitazione o ansioso, non sia esagerato e ostinato, non sia invidioso e troppo sospettoso perche non avrebbe pace mai. Nell’impartire ordini sia previdente e ponderato, e quando dà direttive, sia riguardo alle cose di Dio sia riguardo a quelle del mondo, abbia discrezione e misura, tendo prensete la discrezione di Gacobbe che diceva: se farò stancare troppo i miei greggi a camminare, moriranno tutti in un sol giorno”.

I suggerimenti che San Benedetto lascia ai suoi abati sono di una una modernità assoluta. Queste parole dovrebbero essere rilette da ogni manager, per trovare l’ispirazione ad una leadership equa e giusta, eppure flessibile, ad una leadership che riesca a trovare un equilibrio fondamentale: essere forti e di esempio, ma senza lasciare la l’overconfidence individuale trascini la collettività verso abissi da cui poi è difficile risollevarsi.

GLI EQUILIBRI INDIVIDUALITempo per la comunitàTempo per sèOmologazione Sviluppo talenti individualiObbedienzaIdentità individualeDedizioneObiettivi personali

Fig. 3


Conclusioni

Gli spunti che abbiamo proposto non hanno lo scopo di sopravvalutare l’esperienza benedettina come esempio di perfezione. Il nostro scopo era, in primo luogo, di riconoscere la grande modernità del pensiero di San Benedetto nella proposta della Regola che, leggendo nel profondo le dinamiche di un gruppo sociale, propone alcuni accorgimenti organizzativi di straordinaria attualità.

E’ evidente che ogni proposta teorica, così come è il libro a cui ci siamo ispirati, viene poi agita da ciascuno, individuo o comunità, in termini discrezionali, e molti possono essere le problematiche presenti nella realtà.

In questa lettura parallela tra comunità monastica e azienda è comunque possibile rintracciare molti aspetti che possono essere utili, sia a livello organizzativo che individuale. In particolare abbiamo cercato di sottolineare come non esistono dei modelli e regole che possano servire in modo automatico, ma che esistono sempre delle scelte individuali, sia in un monastero che in azienda, che ciascuno deve fare, sia per le persone a lui / lei afferenti, sia per sé stesso.

Un insegnamento che ci sembra importante è che, al di là dei secoli che ci separano da San Benedetto, e al di là delle diverse realtà in cui ciascuno si trova a vivere, molte delle interazioni tra individuo, lavoro, percorsi di crescita personale e realizzazione, appaiono molto simili. Un’ammonizione che spesso gli uomini sembrano dimenticare, non facendo tesoro dell’esperienza e della storia.


Bibliografia

Bianchi P.G., Ora et labora. La regola benedettina applicata alla strategia d’impresa e al lavoro manageriale, Xenia Edizioni. Milano 2006

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Folador M., L’organizzazione perfetta. La regola di San Benedetto. Una saggezza antica al servizio dell’impresa moderna, Guerini e Associati, Milano 2006.

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Nella dimensione del tempo dei monaci, Editrice Quriniana, Brescia, 2006

Hunter J. C., La Paradoja. Un relato sobre la verdadera esencia del liderazgo, Empresa Activa, Ed. Urano, Barcelona 1999, 173 pp. (orig.: The Servant, Prima Publishing, Rocklin, California 1996).

Id., Las claves de la paradoja. Una guía práctica para el líder con vocación de servicio, Empresa Activa, Ed. Urano, Barcelona 2005, 217 pp. (orig.: The World’s Most Powerful Leadership Principle, Crown Business, New York 2004).

La regola di San Benedetto, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2004



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