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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Lo stress manageriale visto al femminile

Indice


Premessa

L’architrave del tempo

A che gioco si gioca

Il peso della responsabilità e la spina del potere

Affrontare lo stress del punto di vista organizzativo

Conclusioni

Bibliografia




Premessa


Il tema dello stress e della fatica che le persone sopportano in un ruolo manageriale è di grande attualità sia perché profondamente sentito dalle persone in termini di disagio personale, sia perché propone alle organizzazioni delle necessità di ripensamento sul proprio modo di funzionare, ripensamenti sempre utili in periodi di cambiamento spinto e tendenzialmente esponenziale.


Gli interventi precedenti sul tema, in particolare quello di Vaccani, hanno posto in luce una serie di considerazioni che possono considerarsi complementari alle ricerche svolte dall’Osservatorio Armonia sulle differenze di genere. In altre parole, il tentativo che verrà sviluppato in questo contributo è di rintracciare e descrivere alcune peculiarità di stress “al femminile” , peculiarità che sono emerse nelle nostre ricerche e che amplificano gli elementi causali dello stress già messi in evidenza.

Si potrebbe dire che lo stress al femminile, pur muovendosi negli stessi binari, è qualitativamente diverso da quello maschile e propone alcuni spunti di riflessione da un punto di vista altro rispetto alla generalità.


Come considerazione introduttiva è doveroso aggiungere, anche per anticipare critiche consuete, che quando si parla di maschile e femminile si usa una approssimazione sociologica che non vuole connotare drasticamente e in modo generale i segmenti indagati. Le considerazioni che verranno svolte si basano sulle ricerche qualitative dell’Osservatorio che hanno messo in luce sufficienti ridondanze per poter fare affermazioni qualificate al femminile. E’ naturalmente vero che non tutte le donne manager si potranno totalmente identificare, così come non tutti gli uomini si rispecchieranno nelle immagini che emergeranno nel descrivere il maschile.

Potremmo dire che il genere in quanto valenza culturale e non biologica, è utilizzabile come categoria antropologica di descrizione di un gruppo sociale e come tale può essere utilizzato come spunto euristico.


A completamento di questa premessa vogliamo ricordare come nelle indagini sul management al femminile, un aspetto che aveva molto colpito le ricercatrici era la ricorrenza e la ridondanza del termine “fatica”. Per questo motivo ci è sembrato che una proposta di lettura di uno stress al femminile potesse, per le molte donne che ora svolgono un lavoro manageriale, essere interessante.


Di seguito si cercheranno di approfondire gli ambiti di maggiore difficoltà nel management al femminile che vengono identificate come le più critiche fonti di stress. Nello spirito di questa rubrica le considerazioni svolte vanno interpretate come spunti di riflessione e quindi come punto di partenza e non di arrivo.



L’architrave del tempo


Il tempo, nell’accezione della sua mancanza, è indubbiamente una delle maggiori cause di stress. Ciascuno sperimenta direttamente l’ansia del tempo che manca, la sensazione di avere sempre in arretrato cose da fare, il progressivo estendersi del tempo di lavoro sulla vita privata con il conseguente arretramento del tempo per sé.


Data questa situazione è opportuno cercare di comprendere da un lato le dinamiche organizzative ed individuali che portano a questa escalation, dall’altro le reazioni delle persone, con particolare riferimento al genere.


Nelle aziende, così come in qualsiasi gruppo sociale, convivono e si sovrappongono diverse dimensioni del tempo: quella formale derivante dalle modalità di organizzazione del lavoro e dei tempo (orari di ingresso, flessibilità e così via), quella simbolica che afferisce alla cultura del tempo diffusa nel gruppo e che sancisce ad esempio l’accettabilità dei ritardi o la durata reale della giornata lavorativa o ancora la velocità con cui vengono svolte le attività e quella individuale, intesa come la singola propensione ad impostare il proprio lavoro in modo veloce o lento a seconda del tipo di task richiesto (Bombelli, 2001).


Queste diverse dimensioni si sovrappongono nell’esperienza di ciascuno dando luogo alla capacità individuale di programmare il tempo e di reggere la fatica, piuttosto che ai segnali che ciascuno riceve in modo formale, richiami sui ritardi, o informale, battute sulla puntualità. Ad esempio in una azienda partner dell’osservatorio si erano consolidate delle abitudini temporali tali che quando una persona usciva alle 6 di sera, le altre chiedevano. “Hai preso mezza giornata di ferie?”


Per svolgere una riflessione sul tempo è necessario ricordare che il rapporto tra il tempo e le organizzazioni lavorative è, dalla rivoluzione industriale, assoluto.

L’idealtipo della fabbrica fordista è un meccanismo sincronico perfetto. In questo tipo di organizzazione, che è la progenitrice di ogni altra, non si acquista più il prodotto del lavoro, ma il tempo delle persone che viene assolutamente controllato in modo tecnologicamente più o meno avanzato, dal cartellino al badge, con l’idea sottesa che in questo tempo dedicato, in uno spazio prefissato, le persone produrranno. In questa derivazione logica la presenza equivale a lavoro e quindi i contenitori temporali non vengono progettati se non nei casi in cui la tipologia di impianto e la fantasia contrattualistica non richiedono particolari schemi di turnazione (Pero, 1977).


Dopo la stagione del taylorismo il tempo ritorna nella progettualità organizzativa come attenzione alla riduzione, nella cosiddetta time based competition. E’ bene notare che “ciò che si definisce compressione del tempo è in verità il suo esatto opposto, ovvero la compressione, all’interno della medesima unità di tempo, di un numero crescente di processi” (Marzocchi, 1999). In questo modo, l’esigenza aziendale di sintonizzarsi sui cambiamenti sempre più veloci dei mercati, viene affrontata aumentando la velocità, che del tempo è funzione fisica, e dilatando i tempi del lavoro.


Dal punto di vista tendenziale, l’impressione che si ricava nei colloqui con i manager è che carichi di lavoro stiano aumentando in modo progressivo sia per una fiducia taumaturgica nei supporti che la tecnologia offre che per una costante attenzione ai costi del personale.


Questi fenomeni, in parte di natura oggettiva, si accompagnano ad una elaborazione simbolica diffusa che vede come espressione positiva il tempo che i singoli dedicano al lavoro, soprattutto a livello manageriale alto . E’ questo un modo di agire tipicamente italiano dove l’allungamento della giornata lavorativa manageriale è sostenuto dal top management nell’esempio e dai criteri impliciti di valutazione che assegnano al tempo dedicato una valenza di affidabilità spesso superiore all’oggettiva performance. In altre culture manageriali europee è esattamente l’opposto: la persona che allunga la giornata segnala una inefficienza che deve essere affrontata.


Dal punto di vista individuale non possiamo affermare che la dilatazione del tempo costituisca universalmente un disagio. Alle dichiarazioni di malessere spesso si accompagnano comportamenti di riproduzione delle modalità descritte che necessitano di un approfondimento.


Una osservazione possibile riguarda la tipologia e la qualità delle attività: spesso a livello manageriale o di professional il lavoro è intrinsecamente motivante. L’accumulo di competenze, la sfida all’innovazione, le relazioni che si creano rendono il lavoro parte fondante l’identità soggettiva. A volte questo legame si stringe a tal punto che l’identità è sovrapposta al ruolo occupato, soprattutto in quegli uomini che progressivamente hanno dedicato al lavoro ogni loro risorsa (Hochschild, 1997).


In altre parole, un lavoro altamente qualificato e che rimanda una immagine di sé molto positiva, invade progressivamente tutti gli altri spazi della vita.

In situazioni come questa il confine tra dedizione e workaholism è molto sottile: negli Stati Uniti l’iperdedizione al lavoro viene curata come una dipendenza. Questo significa che anche nella relazione tra individuo e lavoro si può quindi strutturare una dinamica complessa fatta di rifiuto razionale e di adesione coatta, con un sovvertimento della capacità personale di controllare le proprie pulsioni così come accade con l’alcool e le droghe.


Sempre per quanto riguarda il versante individuale nello scorrere del tempo individuale vi è una connessione tra il ciclo di vita personale e quello della carriera organizzativa che, in un reciproco influenzamento, modificano bisogni e quindi speranze ed attese dei soggetti (Depolo, Sarchielli, 1991). Ad esempio nella carriera è stata notata una potenziale “crisi di mezza età” che deriva da un diverso modo di considerare il tempo. “La vita viene riconsiderata in base al tempo che ci resta da vivere piuttosto che come tempo trascorso dalla nascita” (Neugarten cit. da Kets De Vries, Miller, 1992).


In questi lavori non viene presa in considerazione la specificità di genere che invece può costituire una interessante ottica di riflessione.

Nell’excursus della vita femminile vi sono momenti significativi diversi rispetto a quella maschile. Il primo è, per le donne che ne fanno esperienza, il momento della maternità. Altrove l’abbiamo definita un sovvertimento ontologico, che porta con sé oltre alle tradizionali difficoltà di conciliazione, un mutamento della scala di valori interiore. Questo significa che accanto alle tradizionali difficoltà quantitative di allocazione dei tempi che le donne vivono, si affiancano considerazioni diverse da punto di vista qualitativo. Nelle coppie odierne il figlio è spesso unico e i genitori, sempre più spesso entrambi, desiderano profondamente dedicare quel tempo che, come spesso si dice, non ritorna più.


Un'altra esperienza che per molte donne può costituire un sovvertimento delle modalità di interpretazione del tempo riguarda il fatto che molte, nell’età identificata precedentemente come a crisi potenziale, devono gestire direttamente la malattia ed accompagnare la morte dei genitori o di altre persone anziane.


Marina Piazza (1999) mette in evidenza come la generazione di donne attuale si trovi a vivere esperienze molto diverse da quelle precedenti: l’allungamento della vita, purtroppo non sempre autosufficiente, accompagnata da una scarsità endemica dei servizi destinati agli anziani, porta ad un maggiore e psicologicamente oneroso carico di lavoro di cura, inteso anche come di compartecipazione affettiva. A questo si accompagna il fatto che i figli si allontano da casa in età sempre maggiore e l’attesa personale di vita che si allunga.


Questo insieme di fattori da un lato propongono il tema sempre presente della conciliazione tra la vita personale e quella lavorativa con sfaccettature diverse in relazione ai cambiamenti sociali e di contesto che stanno intervenendo, dall’altro modificano in modo qualitativo le scelte nei due generi in rapporto con il tempo e con le priorità della vita.


L’esperienza della maternità, in particolare dell’attesa, porta con sé una visione assolutamente peculiare del tempo. E’ esperienza di tempo biologico, naturale contro quello veloce ed artefatto della tecnologia; è esperienza di abbandono e di espropriazione contro la logica di controllo e di programmazione insita nel tempo organizzativo. Il momento del parto è deciso dal corpo, non dalla mente: spesso sono le strutture ospedaliere che per loro esigenze espropriano, con cesarei e parti indotti, questo momento alla donna per ricondurlo all’interno del mondo dell’organizzazione. Il cambiamento di prospettiva temporale assomiglia a quello proposto da Bizzarri ottenibile attraverso la pratica della meditazione.


Le donne che da un lato mettono al mondo la nuova generazione sono anche spesso al capezzale di chi la vita la perde. Anche questa è una esperienza potente nella ristrutturazione dell’identità personale e, di conseguenza, di quella lavorativa perché è una sperimentazione di tempo eterodiretto, non programmabile, ma soprattutto è consapevolezza della fine del tempo. Assistere alla morte significa fare i conti con la propria morte, con la soggettiva fine del tempo.


Ancora ritorna una diversa idea del tempo nel lavoro di cura, nella valorizzazione delle relazione. I bambini, ad esempio, hanno un’idea molto diversa del tempo. Più sono piccoli e più sono ignari del contesto, affondati come sono nel qui ed ora dell’esperienza. La lunghissima osservazione del filo d’erba durante una passeggiata, l’esplorazione rigorosa di un gioco, le prove di abilità – infilarsi una scarpa – continuamente ripetute, si scontrano con qualsiasi tentativo di programmazione del tempo (Bettelheim,1989).


Così come sono imprevedibili i tempi delle coccole, dei compiti difficili o del sostegno. Le donne imparando a districarsi tra il tempo mamma e il tempo azienda non solo esperimentano la scarsità del tempo, ma ne vivono le diverse qualità. Questa sperimentazione può contribuire a sviluppare quella capacità multitasking spesso rilevata dalle organizzazioni come competenza al femminile.


Le diverse qualità del tempo nascono e si sviluppano nell’universo familiare ed in quello lavorativo, universi presieduti da logiche opposte, non riconducibili economicamente una all’altra (Marazzi, 1994 – Sen, 1992). Si potrebbe dire che mentre il valore economico è il rapporto di scambio nell’economia del consumo, il tempo è il valore di scambio nell’economia degli affetti, con una inversione logica per cui nel primo universo il tempo è denaro e quindi va risparmiato, nel secondo il tempo è affetto e quindi va donato.


In questa contraddizione nasce uno specifico stress al femminile, nel doppio legame di un tempo maniacalmente dedicato al lavoro e valutato nell’implicito aziendale diffuso in modo positivo e la necessità di un tempo per la relazione.

A questo si aggiunge una necessità, maggiormente sottolineata al femminile, di un tempo per sé non esclusivamente dedicato ad attività ludiche tipiche del tempo libero, ma utilizzato per riprendere il filo dei significati.



A che gioco si gioca?


Il ruolo manageriale viene esplicato prevalentemente attraverso i comportamenti. Anche le differenti cognizioni che un manager deve possedere non si traducono direttamente in un artefatto, ma sono trasmesse ad altri, comunicate, negoziate. Insomma la quasi totalità del lavoro di un manager non consiste nel fare direttamente, ma nell’intervenire indirettamente.


Una prima conseguenza sullo stress riguarda il fatto che il proprio lavoro è prevalentemente intangibile e come tale difficilmente verificabile. A questo livello le persone per quanto sensate, sono in balia del rispecchiamento del gruppo che le conforta o le disconferma. I tratti individuali, da questo punto di vista, contano moltissimo sia per quanto riguarda la capacità di ascoltare i feedback proposti dal gruppo, che per quanto riguarda la serenità necessaria a non soccombere di fronte alle critiche. E’ facile conseguenza trovare persone in overconfidence, decisionisti e poco attenti ai segnali deboli di qualsiasi natura, piuttosto che persone in cerca di autostima sufficiente a reggere la situazione.


E’ questo un problema più frequentemente segnalato dall’altra metà del management: la difficoltà a mantenere l’autostima necessaria ad affrontare i feedback negativi sul proprio operato.


Il primato del comportamento nel ruolo manageriale, inoltre, porta con sé l’estrema importanza di una serie di fattori molto sottili ed impliciti che riguardano da un lato i limiti di accettabilità definiti e agiti dal gruppo, e dall’altro i comportamenti reciprocamente attesi nel gruppo manageriale. E’ questa una dimensione culturale che si esplica ad esempio nello stile di comunicazione che un capo adotta col collaboratore in occasione di una situazione problematica, piuttosto che nella fiducia reciproca che i manager agiscono nel lavoro quotidiano. Nel primo caso vi sono culture in cui è accettato che il capo urli, additi pubblicamente gli errori delle persone, magari ironizzando apertamente sulle loro capacità. In altre culture questo non è tollerato e prevale una gestione dei conflitti molto formale, magari ipocrita, in cui i messaggi vengono mandati in modo trasversale.


Analogamente vi sono situazioni in cui i diversi interessi degli attori vengono affrontati in modo abbastanza esplicito con una negoziazione parzialmente trasparente. Ad esempio in un avvicendamento al vertice in presenza di diversi candidati potenziali, si possono aprire delle consultazioni accettando i diversi interessi in gioco. In altre situazioni tutto avviene in una lontana “stanza del potere” con tentativi di influenzamento da parte dei singoli molto sotterranei ed impliciti.

Questi esempi dimostrano come in ogni organizzazione si sedimentano una serie di rituali o di giochi di natura implicita la cui conoscenza costituisce un vantaggio per i giocatori (Goffman, 1967, 1969).

L’utilizzo del termine gioco viene introdotto non solo per sottolineare le regole implicite, ma anche per connotare in senso letterale la possibilità dei singoli di divertirsi giocando una partita.


Con queste osservazioni si vuole tornare ad uno specifico stress femminile che si concretizza in due aspetti. Il primo di non capire sempre quali siano i giochi sottesi. Le donne spesso peccano di naiveté: orientate alla concretezza del compito sottovalutano la dimensione del saper comunicare il proprio operato, a volte non comprendendo l’importanza delle stesse regole implicite. Una ulteriore fonte di stress è relativa alla sensazione di giocare un gioco in cui non ci si diverte. Le metafore guerresche di cui il management si nutre, le alleanze attuate e cambiate tatticamente, il testosterone che dilaga nelle battaglie hanno poco a che fare con un patrimonio di giochi di natura diversa.

Il più potente nell’immaginario collettivo diventa colui che è sopravvissuto a molte battaglie (Canetti, 1960).


Quelle che imparano a combattere alla pari diventano le lady di ferro o peggio mutanti che degli uomini hanno assunto le parti peggiori. Nel gruppo circolano e si amplificano gli aneddoti, la donna in questione viene indicata con un soprannome quasi sicuramente ad evocazione sessuale.

E’ difficile stupirsi che anche le più “combattive” ad un certo punto decidano di non giocare più (Bombelli, 2000).


Naturalmente questa difficoltà di integrazione della diversità ha un diverso spessore a seconda dei contesti: se i giochi fossero meno fortemente caratterizzati da rituali di guerra, sia esterna con il mercato e i concorrenti, sia interna con le diverse fazioni, la fatica potrebbe essere meno onerosa per tutti, ma in particolare per le donne che troverebbero elementi di migliore coerenza con le proprie attitudini e una maggiore soddisfazione personale.




Il peso della responsabilità e la spina del potere


Occupare una posizione elevata nella scala gerarchica organizzativa significa agire uno spazio decisorio ampio per diversi ordini di fattori.

Vi è un potere di allocazione autonoma che riguarda quanto budget ciascuno può agire, un potere derivato dai rischi a cui ci si espone ad esempio progettando e costruendo una macchina complessa che può non funzionare nei tempi o nei termini previsti, esiste una responsabilità legata alle persone che dipendono dal manager sia in termini professionali, di possibile sviluppo, ma anche in termini di sopravvivenza: se la fabbrica chiude, le persone vengono licenziate. Insomma i livelli di responsabilità crescono in modo esponenziale nella scala gerarchica e rimandano alla capacità dei singoli di reggere lo stress ad essi connesso.


Le donne manager descrivono con termini più enfatici questa dimensione dello stress, come se il peso della responsabilità fosse più pesante da portare nell’universo femminile.

Questa osservazione empirica può trovare una causa nel diverso manifestarsi dell’etica al maschile e al femminile (Piaget, 1972 - Gilligan, 1992). La prima che si àncora di più ai diritti e quindi all’universo regolativo che sostiene un gruppo sociale, la seconda maggiormente radicata nell’universo delle responsabilità che si devono adempiere per mantenere salde le relazioni.


In un universo così delineato prendere delle decisioni, avendo sempre presente le possibili ricadute, può diventare una fonte costante di stress che avvelena la capacità di rimanere lucidi e fortemente ancorati ai fatti.

Se da un alto è molto importante essere consapevoli di cosa implica ciascuna decisione, dall’altro una attenzione troppo marcata ad ogni dettaglio potrebbe inficiare la decisione stessa, spingendo verso un immobilismo deleterio per l’organizzazione. Questo aspetto è sicuramente fonte di stress per qualsiasi persona occupi una posizione manageriale: la tesi che si vuole sostenere è che questo stress è maggiore al femminile.


Nella catena organizzativa le decisioni prese vanno poi fatte rispettare in una sequenza di comandi che possono travestirsi in modi differenti a seconda delle singole personalità, ma che alla base hanno una precisa gerarchia e dei delimitati ambiti di potere.

“Il comando esercitato è come una freccia….resta conficcato nella persona colpita.(…) Chi detiene il comando e lo lancia ne risente un lieve contraccolpo (….). Molti contraccolpi insieme creano angoscia. (…). Tale angoscia raggiunge il suo apice in coloro che stanno più in alto. La concentrazione dell’angoscia del comando è al culmine alle fonti stesse del comando, in colui che impartisce il comando di sua iniziativa, senza averlo ricevuto da altri, quasi generandolo da sé” (Canetti, cit. pag. 372).


Si saldano in questa descrizione due elementi dello stress manageriale: la capacità / possibilità di prendere la decisione migliore e la conseguente necessità di implementare questa decisione all’interno della struttura organizzativa. Nel primo elemento convergono una serie di meta decisioni: si decide da soli o con altri? In questo secondo caso chi sono gli altri? Le decisioni avvengono negli organismi di governance o sono il frutto di dinamiche, spesso fortuite?


E’ evidente che la complessità gestionale ed organizzativa propone al manager una serie di dilemmi che implicano sia le competenze individuali, ma anche i giochi a cui si è più sopra fatto riferimento.

Il secondo ambito, quello della implementazione delle decisioni prese, rimanda anch’esso a delle scelte di natura gestionale. Le decisioni si impongono? Con quali strumenti di persuasione, di costrizione o di deterrenza?

Indubbiamente entrambi gli ambiti delineati rimandano alle persone, alle loro capacità, ma anche ai tessuti culturali in cui esse sono inserite e che costruiscono nelle quotidiane operazioni di creazione di senso, dei reticoli costrittivi in cui i comportamenti individuali si incanalano, spesso incapaci non solo di modificare i giochi, ma anche di prenderne coscienza.


L’universo femminile più ancorato alla dimensione relazionale, più fortemente connesso all’etica della responsabilità, esperisce con più passione quella che Canetti definisce la spina del potere, ovvero quella ferita che rimane dopo che la freccia del comando è scattata.




Affrontare lo stress dal punto di vista organizzativo


Le considerazioni precedenti hanno lo scopo di portare nel dibattito alcuni spunti di riflessione finalizzati ad una gestione allargata dello stress.

In altre parole descrivere lo stress manageriale, le sue fonti prevalenti, identificarne le qualità sono passaggi necessari per qualsiasi tipo di terapia. Questo e gli interventi precedenti sullo stesso tema delineano due possibili ambiti di soluzioni che possono considerarsi complementari.


Il primo è l’ambito individuale che identica possibili strade di gestione e contenimento dello stress. E’ il caso della proposta di Mazzocchi o di altri filoni di coaching o di counselling che propongono modalità di sostegno alle persone nei momenti più difficili e stressanti.

E’ indubbiamente questo un ambito molto interessante e che può costituire una valida integrazione alle competenze manageriali, soprattutto laddove la complessità è tale che le caratteristiche richieste rischiano davvero di essere sovrumane.


Lo stress però, se non viene gestito singolarmente quasi come una incapacità soggettiva, può essere letto e diagnosticato come provocazione organizzativa. I disagi personali possono fornire all’organizzazione spunti di riflessione che non sono solo utili per migliorare il rapporto con le persone, ma che possono anche segnalare disfunzioni di natura più ampia.


Di seguito proviamo a proporre alcuni filoni di possibile intervento.


  • Progettare il tempo

Il tempo è stato definito un architrave, proprio a simboleggiare la natura di supporto e di cardine che riveste nella vita delle persone, nell’organizzazione del lavoro e nelle articolazioni sociali degli spazi urbani.

Se dal punto di vista individuale il tempo è fattore di stress, dal punto di vista organizzativo esso è il contenitore nel quale i fenomeni avvengono e attraverso cui si giudica l’efficienza dei sistemi organizzati.


L’impressione generale è che il tempo, pur rivestendo una importanza fondamentale, venga trattato nelle organizzazioni secondo i canoni antichi dell’economia fordista in cui presenza equivaleva a prestazione. Non solo, il tempo non viene considerato come qualcosa su cui agire, ma data la sua caratteristica di “sfondo”, viene interpretato più come contenitore che come possibile variabile.


L’importanza del tempo in connessione con lo sviluppo delle tecnologie di trasferimento dati, dovrebbero dare una spinta propulsiva alle progettualità spazio temporali delle organizzazioni. La creatività auspicata dovrebbe aiutare da un lato le persone a soddisfare in modo diverso le proprie esigenze temporali e dall’altro le città ad uscire dalla morsa dei trasferimenti di massa negli orari canonici.


  • Capire le regole del gioco

Ogni organizzazione è attraversa da una miriade di commenti che le persone si scambiano relativamente ai “giochi” in atto, alle fazioni che si contrappongono e agli interessi più o meno velati dei singoli che si confrontano sul palcoscenico organizzativo.


Il confine con le voci di corridoio o con le leggende metropolitane spesso è molto sottile. Altre volte invece la vox populi descrive con accuratezza ciò che sta accadendo. Tale inevitabile rumore di fondo può avere caratteristiche fisiologiche o assumere un tratto patologico nel momento in cui diventa la fonte di informazione per eccellenza di una organizzazione smarrita e alla ricerca di senso. Questo accade in modo più grave quando vi sono in atto fenomeni di macro cambiamenti quali fusioni, ristrutturazioni o privatizzazioni.

Per questo motivo le organizzazioni devono comprendere l’importanza di un’opera di comunicazione seria e puntuale verso i propri clienti interni, soprattutto nei momenti di smarrimento. Per fare questo occorre un elevato livello di consapevolezza relativamente a quali giochi si stanno giocando e come le regole implicite stiano forgiando il contesto.


Non sarà mai possibile rendere esplicito tutto l’universo delle relazioni sotterranee, ma l’altro estremo, quello in cui l’ombra viene lasciata dilagare, può creare problemi di natura ancora più ampia.

Ogni gioco ha bisogno di un arbitro, il più possibile neutrale.


- Migliorare la consapevolezza dei fenomeni organizzativi

Negli universi complessi quali oggi sono le aziende è molto facile comprendere gli elementi di dettaglio, applicare l’intelligenza analitica che riesce a leggere e a controllare i singoli processi, mentre rischiano di sfuggire i macro fenomeni. E’ questo un problema generale di governance ampiamente trattato in questa rivista. Accanto a questi processi di natura strategica rimangono spesso opachi una serie di percorsi decisori di alto livello.


A questa opacità contribuiscono le complessità dei temi trattati e la numerosità degli stakeholders. Tutto questo aumenta l’alea della casualità provocando nelle persone due possibili fenomeni tra loro complementari: da un lato il senso di impotenza e quindi di stress legato alla percezione di incapacità di governo dei fenomeni complessi; dall’altra la possibilità di massimizzare i propri interessi a scapito di quelli organizzativi come la recente vicenda Enron insegna.

E’ per questo che lavorare su una maggiore consapevolezza dei fenomeni in atto a livello manageriale aiuta sia le organizzazioni, aumentando la loro razionalità seppur limitata, che le persone migliorando la loro capacità di evidenziare lo stress inevitabilmente connesso alle posizioni organizzative di vertice come qualcosa di condiviso e non legato alle soggettive incapacità.


Anche i fenomeni di potere necessitano di maggiore trasparenza. L’angoscia del comando si può attenuare rendendo chiare le regole del gioco, elevando i livelli di ascolto e aprendo spazi di negoziazione. Questi processi di consapevolezza organizzativa si raggiungono quando un gruppo manageriale decide di condividere una lettura e una diagnosi del proprio contesto e quindi di delineare un nuovo stile di gestione il più possibile condiviso.



Conclusioni


In questo intervento si è teso a proporre un punto di vista femminile dello stress. Non si può con certezza affermare che questo punto di vista sia condiviso da tutte le donne. Certo è che moltissime di loro segnalano i disagi che si sono cercati di tratteggiare.


Questi disagi in molti casi assumono delle caratteristiche tali che le donne abbandonano le realtà organizzate. Questo significa per gli studiosi di organizzazione integrare l’interpretazione consueta dell’esclusione femminile dai luoghi di potere come discriminazione anche come una scelta precisa: i prezzi di pagare per accedere all’olimpo manageriale sono tali e tanti che molte preferiscono altre strade.

Probabilmente al fenomeno dell’allontanamento delle donne dai luoghi del potere contribuiscono entrambe le cose ovvero un implicito organizzativo dominante che cerca “l’uomo giusto” e la non voglia femminile di giocare a tutto campo la battaglia.


Affrontare in modo non personalistico il tema dello stress significa approfittare degli elementi di conoscenza che esso propone per sviluppare una progettualità. Se questo è vero anche il punto di vista femminile nello stress può dare elementi di comprensione peculiari che possono essere di utilità. Le donne portando alla luce i loro elementi di disagio propongono una sfida nuova che può aprire spazio di miglioramento fruibili in modo allargato sia dalle persone che dalle organizzazioni.




Bibliografia


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