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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Cosa fa la differenza? Maschile e femminile a confronto

E’ una imprenditrice bolognese la prima, diversi anni fa ormai, che ad una serata di presentazione del mio libro “Soffitto di vetro e dintorni, il management al femminile” edito da Etas nell’ormai lontano 2000, mi disse: “Signora, con queste sue idee lei ci sta portando indietro di vent’anni!


Le idee erano quelle delle differenze ovviamente, di quanto uomini e donne agissero, comunicassero, fossero motivati da elementi diversi.

Capii benissimo il suo punto di vista: erano anni che lottava per essere accettata come uguale, per non doversi prendere in carico il peso della diversità, quella che faceva rima con discriminazione, perché le donne erano deboli, magari uterine, certamente in altre faccende affaccendate.


Lei aveva combattuto per un posto al sole, per raggiungere il risultato di una solida posizione organizzativa, per essere ammessa al tavolo del potere, senza se e senza ma, puntando su un unico elemento: l’uguaglianza che la poneva allo stesso livello degli uomini.

E ora arrivava questa qui, cioè io, che sosteneva che gli uomini e le donne in realtà erano diversi.


Il secondo episodio plateale fu una manager di una grande multinazionale che, convocata per un focus group sulle esigenze delle donne nella sua organizzazione, si alzò e mi disse: “ Mi sento offesa di essere chiamata qui come donna, io – in questo contesto – sono soprattutto una manager!”.


Anche nel suo intervento si coglieva, e si coglie tuttora in molte donne, il fastidio di essere “portate indietro” verso una condizione di diversità vissuta al ribasso, come elemento da cui emanciparsi, e non come un valore da portare con orgoglio nei contesti maschili, in cui il maschile spesso diventa maschilismo e chiusura alla pluralità.


Parto spesso da questi episodi quando gestisco una formazione “al femminile” cosa che mi capita molto frequentemente, parto da questo per mettere in luce la contraddizione che cercherò di sviluppare nelle righe successive e che mi pare fondamentale per partire con il piede giusto, per non fare in modo che “femminile” e “maschile” diventino due contenitori stereotipici con lo scopo di fronteggiarsi, di trovare il giusto e lo sbagliato, il bianco e il nero, il territorio dell’esclusione invece che dell’inclusione.


Offro questa riflessione alle donne in un percorso formativo, e la stessa cosa cerco di fare nei contesti manageriali misti, per fermarsi un momento a pensare a quella cosa che chiamiamo io, ovvero sulla nostra poliedrica e variegata identità.


Imprenditrice, diceva la prima, e non donna; manager, ribatteva la seconda, e non donna. Ma questo è impossibile: in ciascuno di noi albergano diverse angolature che formano quello che è il nostro essere nel mondo. Ciascuno di noi è nato in un certo luogo, da una famiglia di una certa estrazione sociale, senza o con beni al sole, con alcuni valori e non altri; ha una determinata età, che è leggera nella prima parte della vita e diventa via via più pesante, fino ad essere spesso celata, almeno tentativamente, dietro maschere e nascondigli di varia natura; aderisce ad alcuni gruppi con più o meno entusiasmo, magari è un fervente religioso, oppure un volontario motivato in un gruppo di impegno sociale. Oppure è un tifoso che non si perde mai una domenica allo stadio.

Poi c’è il lavoro, un’appartenenza organizzativa, che può essere fonte di orgoglio trasferita con un “noi della….”, oppure radice di insoddisfazione e malanimo, quando non è il lavoro che si vorrebbe fare, quando coloro con cui si trascorre la maggior parte della giornata lavorativa sono un peso di sfiducia.


Potrei continuare con molte altre di queste angolature e riprodurle come tessere di un puzzle con forme diverse: ciascuno di noi può prenderne una e inserirla in quadro e pensare quanto pesano questi diversi elementi.


Tra queste diverse tessere di varie dimensioni c’è quella del genere, dell’essere uomini o donne. Un elemento che può essere molto forte, nella percezione di ciascuno, oppure praticamente indifferente.

Ma la percezione di ciascuno viene sottolineate, rinforzata, cambiata da quello che pensano gli altri. Continuo con l’esempio del genere, perché questo si vuole approfondire, ma la dinamica può valere per l’età o per la provenienza geografica, o per qualsiasi altro elemento che compone la nostra identità. Io posso non pensare a me come donna nel contesto lavorativo, ma questa mia posizione può essere non allineata al contesto in cui mi trovo a vivere. Sicuramente se vivessi in Arabia Saudita, il fatto di essere donna sarebbe estremamente rilevante, perché dovrei abbigliarmi in un certo modo, rigidamente determinato, comportarmi in modo socialmente accettabile per i canoni di quel contesto, non potrei lavorare o guidare un’auto.


E’ un esempio estremo? Forse, ma fa capire come la rilevanza di un elemento identitario non nasce solo da come la pensiamo noi rispetto al tema, ma dal continuo confronto con gli altri e con il conteso sociale in senso esteso.


Avete mai notato che quando, in un contesto formativo, un gruppo deve decidere chi relaziona la scelta proposta si basa spesso sulla difformità rispetto agli altri? Se vi è un’unica donna spesso qualcuno dice: lo fa lei, perché è l’unica. Lo stesso accade per un giovane in un gruppo di maturi o viceversa.

Una differenza che non si coglie in gruppi misti, ma che salta subito agli occhi e viene sottolineata se vi sono pochi rappresentati di quella “diversità”.


Ecco perché il tema della diversità è rischioso, come sottolineano gli episodi di apertura, perché si muove su un crinale di auto – percezione e di rispecchiamento da parte degli altri, il cui equilibrio non sempre è facile trovare.


Cito sempre un episodio di vita vissuta, che ho raccontato molte volte, quello di un non vedente, professionista perfettamente inserito nel contesto lavorativo che mi disse ridendo: “Per anni ho lottato per non essere diverso e ci sono riuscito, ora che la mia azienda ha una policy sulla disabilità sono ritornato cieco!”


Quindi, se una persona non sente nessun “problema” nell’universo lavorativo nell’essere donna, o diversamente abile, oppure se è nero in un gruppo di bianchi, o mussulmano in un gruppo di cattolici e così via, sarebbe un grave errore mettere in luce la sua “diversità” perché ce ne dobbiamo occupare “politicamente”.

Per questo ogni iniziativa in relazione a questi temi va calata in un universo culturale specifico, in cui comprendere le dinamiche in essere e verificare, di volta in volta, se è necessario intervenire.


Quello che si può e si deve fare, invece, è proprio mettere in luce – soprattutto a livello manageriale – le dinamiche descritte. Il come e il perché esistono nei contesti organizzativi dei meccanismi di esclusione, che danni rischiano di fare, come si collocano rispetto ai tradizionali strumenti di gestione delle persone, quali di questi momenti sono potenzialmente a rischio di discriminazione negativa.

E’ un lavoro questo che va ben oltre la “moda” della gestione della diversità, quella moda che propone modelli univoci, spesso tutti nati in contesti quali quello americano, completamente differenti per storia, problematiche e cultura di gestione. Ma la moda, si sa, non viene importata con raziocinio, ma solo per dire che si indossa l’ultima parola d’ordine e che quindi si è aggiornati e moderni come manager.


La moda, purtroppo, seguendo gli esempi sopra descritti, rischia di fare più danno che aiuto.

Dal punto di vista femminile, quello che ho trovato molto utile in questi anni, non è tanto discutere delle differenze o delle similitudini, come si è cercato di fare nell’introduzione a questo capitolo, quanto di identificare le problematiche comuni che vivono le donne, segnatamente nel contesto italiano.


I dati sia di partecipazione al mercato del lavoro, ma soprattutto quelli inerenti la carriera, mettono in luce come le donne debbano fare ancora molta strada per raggiungere una sostanziale parità di trattamento. Da questo partiamo, come elemento comune, per capire, di volta in volta e a seconda della cultura organizzativa, quali siano le problematiche in essere. Se e quanto, in quello specifico contesto, agiscano dei meccanismi di esclusione, se questi sono maggiormente radicati nelle regole di gestione oppure nei comportamenti manageriali diffusi. Oppure se sono le donne stesse, come capita sovente, ad autoescludersi, proprio in virtù di alcune differenze che le distinguono dagli uomini, ovvero una minore propensione alle lotte di potere e al desiderio di posizioni organizzativamente rilevanti.


Ed è interessante notare che, in questo lavoro di indagine, si possono trovare situazioni molto variegate, sempre tenendo la differenza di genere come elemento di analisi.

Vi sono contesti organizzativi dove permane un maschilismo implicito enorme, dove ancora le donne vengono guardate con sospetto sia in relazione alla demotivazione in agguato dopo la maternità (ovviamente presunta da chi gestisce), sia alle loro potenziali competenze di leadership. Ma, per rimanere nella dimensione organizzativa opposta, ci capita di trovare organizzazioni in cerca di donne da inserire in posizioni di comando, che non le trovano, non perché non ci siano nella pipeline di gestione, ma perché non ne vogliono sapere.


Analogamente, sul fronte individuale, troviamo situazioni molto differenti in relazioni ai cluster di età: donne di circa 40 anni che – a volte – non se la sentono di affrontare la carriera, oppure trentenni molto aggressive e determinate.

In un’azienda abbiamo trovato una interessantissima esperienza di carriere oltre i 45 anni: donne che avevano lasciato i figli orami grandi al loro destino e che hanno risposto positivamente ad una proposta aziendale di avanzamento in una età che, solitamente, nelle ordinarie culture di gestione, è considerata un tabù.


In conclusione, la diversità è bella proprio perché non ha modelli interpretativi univoci. Bisogna capirla, sia nella sua connotazione individuale che in quella organizzativa e sociale. Si può far finta che non esista, ma torna fuori, se non nelle scelte soggettive, negli occhi degli altri che ci guardano.

E’ naturale che un giovane si senta diverso in un gruppo di anziani, e un italiano diverso in in un gruppo di americani. Ma cosa poi significhi questa sensazione, e come si possa gestirla, questo è tutto un capitolo da scrivere.


Un’ultima notazione che mi pare importante: al di là delle differenze c’è ancora molto che rende le persone, se non uguali, certamente simili: ad ogni latitudine gli individui cercano la soddisfazione dei loro bisogni primari, di sicurezza, di riconoscimento e di auto realizzazione. Essi vogliano essere apprezzati dal gruppo in cui vivono, costruire degli affetti duraturi, sfamare il loro desiderio di conoscenza e di affermazione. Se poi questi bisogni sono o meno in gerarchia come il buon vecchio Maslow sottolineava, questo non lo so, e la ricerca non lo chiarisce in modo definitivo, ma certo è che ciascuno, in misura diversa, ha queste necessità. Forse, prima ancora di lavorare sulle differenze, abbiamo ancora molto da fare per rispondere, sia come formatori che manager, a queste richieste. Il che, davvero, non sarebbe poco.


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