top of page
  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Le donne non chiedono

Ha un’espressione controllata, il viso gentile e gli occhi azzurri. E’ una delle cinque donne che compongono il panel di top manager che stanno raccontando la loro esperienza ad una platea di giovani donne. “Mi hanno convocato e mi hanno offerta la posizione di direttore generale. A me che non avevo un’esperienza specifica in temi finanziari, sembrava una follia. Non me l’aspettavo, non me l’aspettavo proprio. Poi, naturalmente, ho accettato la sfida”.

Le altre raccontano esperienze analoghe. Una grande dedizione, il lavoro che le assorbe, la passione per il risultato e la qualità della relazione instaurata con i collaboratori, ma soprattutto la proposta inaspettata.


Acquista il libro completo cliccando qui.


Le donne sembrano non avere in mente un piano, non mirare in modo specifico ad una evidenza simbolica del risultato del loro lavoro. Certo non tutte, come è sempre bene sottolineare in queste necessarie generalizzazioni, ma molta parte di loro segue un medesimo percorso.


Considerazioni analoghe sono scaturite dalla prima ricerca del Laboratorio Armonia, pubblicata con il titolo Soffitto di vetro e dintorni . Durante i focus group e le interviste sono state raccolte decine di storie lavorative al femminile con alcune regolarità di comportamento o di pressione del contesto che sono state descritte in quel lavoro. Di questi elementi ricorrenti uno mi ha colpito in modo particolare: le donne non diventano parte attiva nel negoziare la loro carriera e, soprattutto, i loro aumenti salariali.


Un’azienda di quelle indagate, particolarmente sensibile all’equità, raccontava che nelle assunzioni di personale a qualche anno dalla laurea, quindi intorno ai 30 – 33 anni d’età, il pay gap rilevabile era di circa il 20%, naturalmente a favore della componente maschile.


Le donne quindi non chiedono.


Durante la discussione di gruppo relativa ai perché questo accadesse, emergevano delle posizioni molto simili. Il lavoro ben fatto era ritenuto autoesplicativo. Se il risultato esiste, ed è di qualità, perché mai il management non dovrebbe accorgersene? Le donne, quindi, aspettano che il loro capo, e di conseguenza il contesto, riconosca il loro contributo. Questo, come si può evincere dalle esperienze riportate in apertura, spesso accade: la ricerca dei talenti, l’ascolto organizzativo possono portare ad una equità sostanziale, indipendente dal sesso delle persone. Ma come sanno bene sia coloro che si occupano di organizzazioni che coloro che lavorano, altrettanto spesso questo non succede.

In un mondo dove la velocità è imperante, dove i carichi di lavoro sono crescenti, dove le connessioni esautorano il pensiero, spesso la percezione del merito sfuma a favore dell’apparire. Chi si dimostra attivo, anche nel chiedere, viene premiato.

Per non parlare poi dei contesti in cui esistono stereotipi diffusi e spesso totalmente impliciti sull’incapacità o impossibilità delle donne ad assumere posizioni gerarchicamente rilevanti.


Così, nella convergenza di aspetti organizzativi – incapacità di premiare il merito – e di aspetti soggettivi – incompetenza femminile nel mettere sul tavolo le proprie ragioni – inizia la lenta deriva del pay gap sulle stesse posizioni e la cosiddetta segregazione verticale, quel fenomeno per cui le donne affollano i primi piani della scala gerarchica e inesorabilmente scemano verso la fine. Come si sostiene nel libro che state per leggere sia il vantaggio che lo svantaggio sono cumulativi. Le esperienze descritte, inoltre, collegano profondamente la realtà italiana a quella statunitense. In questo campo, come in altri di comportamento organizzativo, le differenze di comportamento collegate al genere appaiono spesso transculturali. Indipendentemente dalla nazione di appartenenza tutte le donne sembrano avere un gap di autostima da colmare, elemento che, insieme ad altri, le porta a non combattere per il proprio tornaconto.


Questo testo ha diversi meriti.


Il primo di affermarlo con forza, ad iniziare dal titolo: le donne non chiedono!

Ad un recente dibattito, a questa mia affermazione, un amministratore delegato ha subito ribattuto: “Ciò non accade nella mia azienda!”. Capisco che generalizzazioni possano suonare arbitrarie e quando si tratta di genere c’è sempre qualcuno disposto a giurare che il tema riguarda le persone e non la loro appartenenza di genere. Come sostiene Kimmel, e molti altri con lui, il genere ha una strana sorte, è spesso soggetto a cecità. O meglio, chi detiene i privilegi è cieco rispetto a questa sua fortuna.

Invece credo che in questo caso la ricerca sia esplicita e precisa: le donne non chiedono.

Si aspettano di essere valutate equamente senza bisogno di rivendicare, ma soprattutto evitano le situazioni negoziali in cui entri un interesse personale.


Il secondo merito di questo libro è di indagare le cause che sostengono questo fenomeno.

In questo percorso non si mettono in campo solo ipotesi o congetture. Linda Babcock ci offre tutte le sue credenziali di Professore alla Carnegie Mellon University richiamando ricerche sia fondamentali che recenti, che supportano le riflessioni delle autrici.


Le cause quindi, ancora una volta, si muovono sia nell’universo organizzativo che in quello individuale. La prima riflessione quindi, come già anticipato precedentemente, riguarda la possibilità dei contesti organizzativi di diventare equi e meritocratici, due semplici aggettivi che, come è facilmente intuibile, sono il portato di radici profonde che vanno dalla vision descritta e praticata in azienda, ai valori che sostengono il management nella sua azione, fino ai comportamenti delle singole persone in azienda. Di conseguenza il tema è ampio ed importante.


Non c’è ovviamente una risposta generalizzabile. Si tratta però di scegliere dal punto di vista gestionale se continuare a perpetuare le catene dell’inefficienza che si radicano nell’incapacità di scoprire e valorizzare il merito e che terminano nella caduta di competitività del sistema.


Da questo punto di vista l’incapacità femminile di chiedere potrebbe essere utile come cartina di tornasole di un sistema di management. Osservando parallelamente i dati delle performance scolastiche e lavorative degli uomini e delle donne sorge un dubbio. O sbagliano i professori e gli insegnanti che regolarmente assegnano alle donne brillanti votazioni, o peccano i valutatori aziendali che non colgono il potenziale delle persone indipendentemente dal genere di appartenenza. Certo l’obiezione è semplice: i criteri di valutazione sono diversi. Come sanno tutti non sempre i “secchioni” sono abili manager. Peccato che le giovani e brillanti donne che affollano le nostre aule e che dal 1981 hanno superato in scolarità i colleghi maschi, tutto sembrano tranne che spaventati topini da biblioteca.


Quindi proviamo a riflettere sulla divaricazione valutativa di questi due contesti, smettendo anche qui di invocare il tempo come lenta ed inesorabile cura alle situazione di disparità. Non di tempo si tratta, ma di consapevolezza e di cultura.


Più ampio è lo spazio dedicato alla dimensione individuale. Perché del donne non chiedono? La domanda si allarga ad una serie di riflessioni. Dove inizia quel gap di autostima e di sicurezza che spesso conduce il lato femminile del lavoro a sottrarsi, a non dimostrare con efficacia e in modo consapevole i propri talenti?

Dal punto di vista delle evidenze il fenomeno è molto esplicito. Le donne sembrano possedere un locus of control più esterno di quello maschile. Questo significa che attribuiscono maggiormente all’esterno, agli accadimenti del contesto, le cause della propria performance. Gli uomini, viceversa, sembrano più posizionati all’interno, con una sottolineatura della possibilità soggettiva di agire e modificare il proprio destino.

Questa dimensione di fondo porta indubbiamente ad una minore sicurezza soggettiva e quindi ai comportamenti descritti.


Nell’eterno dibattito tra culturale e innato il libro si schiera decisamente a favore di una cultura che, perdendosi nella notte di tempi, rischia di diventare natura.

Una prima causa culturale riguarda l’abitudine al lavoro non pagato. La casa come luogo d’affetto e di relazione, ma anche di servizi che emergono nella dimensione economica solo quando oggetto di esternalizzazione, portano ad una attitudine al dono che spesso confonde l’elemento relazionale con quello fattuale.


Universi intraducibili, come sostiene Marazzi , che dal punto di vista delle conseguenza procurano la difficoltà di distinguere e di destreggiarsi nell’universo del valore economico. In più, mentre il lavoro “duro” della fabbrica e del prodotto conserva e mostra il valore in modo diretto, il lavoro di servizio o gestionale comporta molti aspetti di qualità non immediatamente evidenti o addirittura occulti. Una interessante ricerca di una ricercatrice del MIT mostra come spesso le attività femminili di armonizzazione del contesto, di fluidificazione dei conflitti e di manutenzione relazionale, scompaiono agli occhi degli osservatori, anche con responsabilità gestionali.


Le cause più radicate e profonde, spesso solo intuibili, sono da rintracciare nei processi di socializzazione che se lentamente escono dall’attribuzione diretta di una maschile e femminile nelle posizioni sociali e nelle competenze stereotipicamente collegate al genere, restano profondamente invischiate nei giudizi sui comportamenti relativi.

E’ questo un aspetto visibile spesso solo alle donne e non agli uomini che dichiarano una loro sostanziale equanimità nel trattare le persone. E’ invece plausibile che vi sia una diffusa convinzione sui comportamenti delle “brave ragazze”. A partire dai giochi e dai comportamenti in classe, fino agli apprezzamenti degli stili gestionali, le donne vengono sottilmente indirizzate dagli educatori verso delle modalità di comportamento accettabili molto più definite e segmentate di quelle maschili.

E’ Deborah Tannen che sintetizza il “doppio legame” che alla fine questo processo comporta: “La cosa più penosa in una società che tende all’uguaglianza, nella quale sempre più donne stanno acquisendo posizioni caratterizzate da uno status elevato, è che le donne dotate di autorità si trovano strette in un doppio legame. Se parlano utilizzando lo stile normalmente adottato dalle donne, vengono considerate come delle leader inadeguate. Se invece utilizzano lo stile tipico dei leader, vengono considerate donne inadeguate. La via verso l’autorità è molto ripida per le donne e una volte giunte in cima si trovano su un letto di spine”.

Anche in questo caso numerose e documentate ricerche vengono proposte. Gli stili di leadership non hanno valore universale, ma sono profondamente collegati alla cultura di appartenenza delle organizzazioni che per la maggior parte privilegia valori maschili, se praticati da maschi, ma li ritiene non appropriati se praticati da donne.

Tra i comportamenti spesso sanzionati sono il mettersi in mostra, rivendicare duramente, negoziare in modo puntuale. Ecco perché in quei momenti organizzativi in cui “passano le occasioni” mentre lo donne si interrogano su cosa fare, un uomo si è già candidato.


Che cosa si può fare allora?


Sul versante organizzativo è importante operare in una direzione che non ha esclusivamente come scopo la valorizzazione femminile, ma la capacità organizzativa di discernere i contributi dei singoli, sia nella dimensione esplicita del diretto orientamento al risultato, sia in quella implicita della “manutenzione relazionale” al contesto. Si tratta di capire se le organizzazioni siano in grado di passare dalle parole ai fatti quando parlano di centralità delle persone e di competenze distintive derivate.


Dal punto di vista individuale il libro offre numerosi spunti. Sono le donne stesse a dover comprendere che cosa accade, diventando consapevoli che il fenomeno non riguarda solo “le altre”, ma attraversa compatto l’universo femminile.

Esiste spesso una avversione profonda a concepirsi “diverse”, soprattutto quando questa diversità ha il portato di una relativa incompetenza.

Bisogna poi intraprendere un percorso personale di apprendimento alla gestione del conflitto, al non confondere la capacità assertiva di esplicitare le proprie posizioni con la negazione dell’altro. Bisogna lentamente, ma con determinazione, imparare a gestire l’ansia connessa alla negoziazione, corretta ed aperta, dei propri obiettivi.

Una strada lunga a cui possono contribuire momenti formativi differenziati per genere, piuttosto che processi individualizzati di coaching o di mentoring.


In questo percorso le donne devono provare a rintracciare quell’aggressività scomparsa o male indirizzata che caratterizza la loro vita, in modo da equilibrare la parte maschile mancante. Per aggressività qui si intende con Marina Valcarenghi “quella disposizione istintiva che orienta a conquistare e difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse; o, in altri termini, quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità”.


Un “percorso possibile” soprattutto alle nuove generazioni che sembrano più forti nell’autostima, più consapevoli del proprio valore, ma che non hanno ancora pienamente compreso come abbattere gli ostacoli “interiori” alle carriere al femminile.


Un’ultima notazione su questo testo è di leggera invidia.

Raramente capita di trovare in Italia una pubblicazione che sappia coniugare chiarezza e divulgazione con altrettanto rigore metodologico. Le pubblicazioni degli accademici sono spesso illeggibili dalla maggioranza, anche scolarizzata, della popolazione; i contributi manualistici sono spesso un’accozzaglia di luoghi comuni.

L’alleanza tra una docente universitaria e una giornalista in questo caso produce un ibrido di grande qualità che personalmente spero possa diventare prototipo di un ponte tra i lavori di ricerca e l’utilizzo diffuso dei risultati.

Per questo motivo il libro può essere letto da diversi punti di vista. Come ricca ed aggiornata fonte di letteratura, come stimolo di riflessione, ma anche come guida per imparare a modificare i contesti e i propri comportamenti: decisamente non poco.


bottom of page