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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Lavoriamo troppo?

Spesso si arriva all’estate con grandi aspettative: nella valigia trovano posto i libri che non si sono riusciti a leggere, le idee dei posti da visitare e, contemporaneamente, il desiderio dell’ozio, di quei tempi morti apparentemente noiosi, ma spesso fecondi di idee, intuizioni collegamenti.

Un’estate in cui condensare i desiderata di tutto l’anno, compreso quel magico incontro atteso da anni, sempre in bilico tra la realtà e la fantasia.


Settembre arriva con la velocità di un fulmine. Più l’età avanza e più aumenta la percezione soggettiva della velocità del tempo: questa considerazione mutuata dall’esperienza quotidiana è stata anche oggetto di studi da parte di uno psicologo svizzero Biswangen. Addio quindi sogni di lentezza, di calma, di serenità.


Contro questo desiderio congiurano anche le organizzazioni e i loro ritmi infernali: c’è sempre un progetto da terminare per il giorno dopo perché il cliente preme (lo stesso cliente può poi tenere il progetto in un cassetto una settimana o anche più, ma prima sembra avere una fretta indiavolata), ci sono una quantità di arretrati da smaltire, bisogna fare i conti con la disorganizzazione che a volte costringere a ripetere, modificare, aggiungere……


Il pericolo che descriviamo si trova esattamente al confine tra le richieste ossessive e spesso irrazionali delle organizzazioni che il desiderio soggettivo di fare tutto, di essere affidabili e professionale.

La tensione al lavoro ben fatto, lo stimolo ad una buon performance a certi livelli di professione non sono “estorte” dall’organizzazione con metodi coercitivi. Sono le persone che trovano piacere nell’andare avanti, nel pensare, nel produrre.


Lavorare con le idee è molto diverso che lavorare con gli oggetti. Quando si esce da luogo di lavoro l’oggetto viene riposto, riposa anche lui. Viceversa le idee hanno una vita propria, emergono nei momenti meno attesi, nelle solitudini dei viaggi o in quelle più quotidiane dell’isolamento fisiologico!


Se il lavoro, un lavoro che piace e appassiona, non ci abbandona mai, il pericolo diventa interno. Gli americani parlano di sindrome workhaolic o di persone work addict. Insomma dipendenti dal lavoro, intossicati dal lavoro. Vi sono siti di selfhelp, gruppi di sostegno anonimi, esattamente con le stesse strategie utilizzare nelle dipendenze dall'alcool o dalla droga.

Forse la prospettiva appare esagerata. Il lavoro nato come “maledizione biblica” si può trasformare in qualcosa di ricercato ossessivamente, perseguito compulsivamente?


In un interessante libro Hochschild, The time bind, una ricercatrice americana, ha raccolto una serie di storie in cui “il lavoro diventa casa, e la casa diventa lavoro”, persone che allungavano progressivamente l’orario di lavoro, per cui il ritorno a casa costituiva fonte di stress, di insoddisfazione, rispetto all’ambiente di lavoro in cui circolava un clima di complicità e di sostegno reciproco.


L’estate, in questa prospettiva, potrebbe essere un periodo di distacco che aiuti in una sorta di chek up, non solo – come si è abituati a fare – della cattiveria o insipienza organizzativa, ma della capacità soggettiva di gestire il tempo, di organizzarsi in modo intelligente e, soprattutto, di segnare dei territori a tempo dilatato.


A volte basta pochissimo: il trasferimento da un ufficio all’altro in una via del centro può essere fatto a passi veloci, sguardo accigliato e pensieri persi nel progetto oppure a passi un più lenti, guardandosi attorno, ascoltando i rumori, sentendo il sole sulla pelle….. Riabilitando, insomma, quei sensi che sdoganiamo solo durante le vacanze.


Dal punto di vista oggettivo il percorso è durato qualche minuto in più, da quello soggettivo ci siamo prese una breve pausa interiore che, per paradosso, ci renderà ancora più produttive. Recuperare il corpo, i suoi segnali, la sua gioiosa presenza, e non solo quella negativa e imprescindibile, del sintomo e dell’acciacco. Prima di caderci, il workhaolism si può provare a prevenire dall’interno.




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