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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

La formazione autogestita

Aggiornamento: 14 mar 2021

con L. Girelli


Abstract


La formazione aziendale ha sempre avuto un ruolo significativo nell’accompagnare le imprese nei processi di sviluppo e innovazione. Questo ruolo è tanto più centrale in un periodo in cui le esigenze diventano sempre più complesse e sofisticate, nel primo caso per le risposte da dare a contesti in grande turbolenza e, nel secondo, per la necessità di mirare gli interventi in modo specifico.

In questo quadro l’affacciarsi di strumenti quali la formazione one to one sembrano una risposta possibile a questa contemporanea esigenza di complessità e sofisticazione.


Nell’utilizzo di questi progetti è necessario effettuare alcune scelte che possono cambiare radicalmente sia il processo che gli esiti.

La scelta di privilegiare la dimensione individuale rischia di mettere in ombra quella collettiva sia in termini simbolici ed emotivi, che di condivisione delle mappe cognitive; quale aspetto è necessario privilegiare nei colloqui, quello di sostegno personale con il rischio di mettere in scena una brutta copia della psicoterapia o quello cognitivo, di trasmissione di modelli mentali o di uniformazione di comportamenti; quale confine è deontologicamente necessario segnalare al committente e all’utente rispetto ad interventi terapeutici individuali, quali competenze deve avere il formatore che agisce questi processi e quali versanti della valutazione devono essere messi in campo.


Domande e scelte complesse che non possono essere sottovalutate e che necessitano, di volta in volta, di una calibrazione pratica tenendo presenti diversi aspetti teorici.

Le autrici, ripercorrendo le opportunità e i rischi di questa nuova tipologia di interventi, formulano una ipotesi di percorso formativo sperimentata con Ikea Italia che ha tentato di equilibrare i diversi rischi individuati trovando una risposta progettuale che può offrire spunti di riproducibilità.



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Ripensare la formazione


La necessità delle aziende di rinnovarsi continuamente per fronteggiare la complessità delle sfide di mercati continuamente in evoluzione è forse cosa troppo ovvia da necessitare particolari sottolineature.

Analogamente, in modo quasi automatico, si è soliti citare le persone come il cardine su cui posa la possibilità di sviluppare innovazione e, quindi, valore. Entrambe affermazioni di principio che spesso stentano a trovare strumenti e prassi operative di attuazione.

Uno degli strumenti più consoni per muoversi nei nuovi scenari tracciati è indubbiamente la formazione che necessita però di attivo ripensamento. Utilizzando lo schema proposto da Boldizzoni, Nacamulli (2004) possiamo pensare ad una formazione che dall’aula si rivolge all’esterno per sperimentare nuove modalità e percorsi, per rinnovarsi addirittura “oltre” l’aula stessa.

Sintomo del tentativo di rivedere la tradizione è sicuramente il fiorire di attività classificabili nel più ampio capitolo della formazione one to one: ci si riferisce a diverse etichette quali counselling, mentoring o coaching che mantengono al loro interno un certo grado di sfumatura e quindi di labili confini.

Dietro questi nomi è possibile intravedere diverse tipologie di intervento che sono ormai distinguibili in letteratura, mentre lo sono un po’ meno nella pratica.

Utilizzando uno schema proposto da Mapelli (2002) possiamo mettere a confronto diverse dimensioni, come tentativo di sistematizzare la letteratura in materia.

Le differenze sembrano quindi abbastanza consolidate. Mentre il mentoring è un processo svolto internamente, da persone senior, che accolgono e accompagnano il percorso di inserimento o professionale, senza una relazione gerarchica, il coaching si configura come una attività trasversale alle competenze manageriali, che riguarda anche i propri collaboratori diretti. Il Mentore di Telemaco, che dà il nome al processo di formazione, educa da un punto di vista intellettuale, ma anche e soprattutto, da un punto di vista emotivo e caratteriale, aiutandolo nel percorso verso il raggiungimento di una equilibrata maturità personale (Cecchinato, Di Pietro, 1998). Il coach invece è inteso come l’insegnante, il ripetitore, poi estesosi e maggiormente utilizzato in ambito sportivo, come l’allenatore.


Il couselling, come specificato da Piccardo, Reynaudo (2004) “indica un percorso complesso in cui si articolano, e reciprocamente si compongono una serie di processi quali la riflessione, la sollecitudine, la cura e l’aiuto”. Le autrici addirittura, con una chirurgica precisione lessicale, propongono una distinzione tra counseling e counselling, nella prima accezione legato alla “violazione consapevole delle regole grammaticali da parte di Rogers e May e nella scelta di definire in tal modo la tecnica nascente”, nel secondo il processo di formazione in esame. In entrambi i casi però il counselor rimarrà come scritto, “in omaggio ai due padri fondatori” e perché chi esercita tale ruolo dovrà necessariamente possedere le competenze indicate originariamente.


Per dovere di completezza bisognerebbe citare anche i tutor, figura più spesso usata nei percorsi formativi anche tradizionali, sempre con modalità, obiettivi e competenze differenti. Orientati maggiormente alle conoscenze, presidiano anch’essi un processo di apprendimento di gruppo o, spesso, individuale.

Dopo esserci interrogati sulle differenze soggiacenti alle diverse etichette può essere utile soffermarsi sugli elementi unificanti.

Innanzitutto il setting, una situazione one to one, sostanzialmente diversa dalla tradizionale one to many. La diversità di contesto rimanda a due elementi che possono costituire contemporaneamente il vantaggio e il punto di debolezza di questa tipologia di attività. Il primo riguarda gli obiettivi perseguibili in un contesto formativo quale quello descritto, il secondo le competenze del formatore.


Su questi due aspetti la letteratura è poco chiara.

In tutte le descrizioni della formazione one to one si ribadisce che gli obiettivi riguardano la persona. Il più spinto in questa direzione è indubbiamente il counseling: “dal latino “consulere” che significa “consultarsi”, “riflettere”, “deliberare”, ma anche “provvedere a”, “avere cura”: da questo verbo deriva la parola “consilium”, vale a dire il consiglio, il suggerimento, la saggezza, l’esortazione, il parere che si dà a qualcuno per supportarlo nella sua attività” (Quaglino, 1999, pag. 235).


Analogamente per il mentoring si parla di un coinvolgimento personale ed di una disponibilità a dare sostegno e comprensione (Reggiani, 2000). Gli obiettivi diventano un po’ più pratici nel coaching che viene definito “una azione mirata, esplicita, legata ad un obiettivo di apprendimento ben definito, consapevolmente messa in atto” (ibidem).


Trasversale alle tipologie è l’enfasi posta sull’ascolto “che nasce come modo di aiutare qualcuno a decidere del proprio futuro, più che a decifrare il proprio passato” (Paladino, Corizza, Tosoni, 2001). Un ascolto non valutativo, non impositivo, che “rispetta, accoglie e apprezza le emozioni espresse dal soggetto” (Goeta, 2004).


Difficile a questo punto tracciare un confine tra formazione e terapia. Se gli obiettivi sono quelli descritti, se le modalità di azione del formatore si espandono verso il rispecchiamento e il sostegno, senza un legame specifico con obiettivi di apprendimento, che viene solo sottolineato nel coaching, come possiamo separare questo territorio dalla terapia?

La domanda non è eludibile. Goeta (2004, pag. 31) risponde con chiarezza: “Si dirà che in questo modo si entra in entra in un territorio intimo e privato, ma è altrettanto certo che la psicoterapia, quando efficace, ha a che fare con l’apprendimento allo stato puro, e costituisce il vero contributo del secolo passato non solo alla comprensione dell’esistenza umana, ma soprattutto dei meccanismi e processi di crescita”.

E’ evidente che non è questo il termine principale della discussione: non si sta dissertando circa l’efficacia o meno della terapia, ma se questa è legittimamente e deontologicamente proponibile in un universo organizzativo e quali competenze, certificate da chi, con quali valutazioni dei risultati il nuovo formatore deve mettere in campo.


Il rischio è altissimo: l’organizzazione è per definizione un contesto di potere. Può legittimamente “consigliare” setting di questo tipo ai suoi collaboratori? Diversa è ovviamente la situazione in cui le persone scelgono di intraprendere un percorso terapeutico e formulano un contratto psicologico libero e derivante da una conoscenza, almeno parziale, della strumentazione che verrà utilizzata.


Il nostro personale punto di vista è che questo possa costituire un elemento di pericolo molto sottovalutato. Il rischio di un esercizio di dominio da parte di un guaritore/distruttore (Hillman, 1972) deve essere preso in considerazione e mettere in guardia rispetto ad una tutela della persona oggetto della formazione. Questo rimanda alle competenze necessarie per agire il ruolo di counselor, mentore o coach. Se il setting non è ben delineato e gli obiettivi chiariti, il rischio di scivolamento nella psicoterapia porta con sé la potenziale espansione di un elevato numero di “apprendisti stregoni” senza il necessario background teorico, ma soprattutto di equilibrio personale necessari per agire il ruolo.


E’necessario quindi con estrema chiarezza distinguere la formazione dalla terapia in termini espliciti sia nella formulazione del contratto organizzativo con il committente che del contratto psicologico con l’utente / cliente.

Da queste considerazioni nascono, a nostro parere, diverse cautele che devono essere tenute presente nel progettare un percorso formativo che sia tutto o in parte one to one.



Le motivazioni organizzative ed individuali a favore della formazione one to one


I motivi per cui le organizzazioni scelgono di passare alla formazione one to one sono molteplici e diversi, ma tutti fanno riferimento alla complessità sia di contesto che organizzativa che è necessario fronteggiare.

In primo luogo è necessario sottolineare l’elemento di integrazione organizzativa costituito dalla cultura aziendale, dalla conoscenza implicita condivisa, dalla capacità di raggiungere obiettivi comuni pur nella diversità soggettiva di strategie. Se questa condivisione sarà raggiunta l’organizzazione potrà sperare di spostare il livello di decisione ai piani più bassi della gerarchia senza temere effetti disgreganti e dispersivi (Weiss, Kolberg, 2003).

In secondo luogo la complessità è accentuata dalla molteplicità delle posizioni e dalla diversificazione dei contenuti di apprendimento. Livelli di specializzazione sempre più profondi e condivisioni sempre più spinte necessitano di curare i singoli percorsi di apprendimento nel dettaglio, seguendo lo sviluppo personale, prima che professionale, coma mai si è fatto precedentemente.


In modo specifico i motivi che inducono all’utilizzo del coaching possono essere legati a momenti di cambiamento, cambio generazionale al vertice, nuove nomine o sviluppo dei talenti (Grammatica, Tassarotti, 2003).


La formazione tradizionale si rivela uno strumento parzialmente inefficace nel trasferimento della conoscenza tacita che dovrebbe essere prima disoccultata e formalizzata per il passaggio one to many. Questo tipo di conoscenza, viceversa, si annida nelle modalità operative diffuse, nelle scelte minime delle persone, nel risvolto quotidiano dell’azione. Diventa quindi oggetto privilegiato di un apprendimento attraverso la discussione di casi particolari con qualcuno che ha vissuto l’azienda e ne conosce le modalità di trattazione delle problematiche quotidiane. Obiettivo quindi raggiungibile solo con persone interne, e non con consulenti esterni.


Ancora la formazione tradizionale spesso fallisce nel raggiungimento di obiettivi di comportamento dove, oltre la ricostruzione teorica di modelli utilizzabili, è necessario sviluppare un percorso assolutamente personale di prova ed errore nel trasferimento nelle competenze soggettive. Le tematiche di comportamento organizzativo sono spesso destinate ad essere svilite in una serie di slide che fanno spesso dire agli utenti: “Ho già fatto un corso sulla comunicazione….”, senza tenere conto delle abilità soggettive nel comunicare. Il reiterare corsi aventi per oggetto il comportamento spesso nuoce più che favorire il cambiamento individuale.


Infine la formazione one to many appiattisce le differenze dei percorsi di apprendimento individuale. E’ vero che i formatori attenti hanno da anni sviluppato una serie di metodologie attive, dagli autocasi alle esercitazioni personalizzate, per rimediare momenti particolari di soggettivazione, ma spesso questo non è sufficiente a contenere il panorama delle diversità.

Il tema della gestione dei conflitti, ad esempio, ha spesso delle peculiarità al femminile che trattate in un’aula mista potrebbero risultare noiose. Analogamente la motivazione probabilmente ha delle differenze nel ciclo di vita e quindi potrebbe essere correlata alle diverse età.


I contesti organizzativi oggi contengono molti più elementi di differenziazione soggettiva di quelli di un tempo (Bombelli, 2004) e questi fattori devono essere tenuti in considerazione nella costruzione di percorsi formativi.


Se sul versante organizzativo le esigenze sono di mantenere flessibili ed elevate prestazioni in relazione con quanto richiesto da un conteso a complessità crescente, sul versante individuale si assommano difficoltà e problematiche antiche, quali quelle della motivazione al lavoro ad altre più recenti, stress di mancanza di tempo e crescente solitudine, solo per citare quelli più emblematici.


L’evolvere dei bisogni individuali nel contesto organizzativo aziendale è in gran parte inscrivibile e comprensibile nella più ampia relazione che connette, con dinamiche e struttura continuamente mutevoli, individuo e società.

Nella richiesta formativa del singolo soggetto si trova l’eco del bisogno della persona nelle sue istanze complesse – cognitive, affettive, relazionali – che si esprimono poi in tutti i diversi ambiti della vita sociale e dei ruoli giocati dallo stesso soggetto, in azienda come in famiglia, nel privato come nelle relazioni collettive e istituzionali.


Nella trasformazione sociale tardo-moderna, il primo e forse più sentito bisogno è quello di ri-creare nuove forme relazionali che consentano di superare il disagio e i molti malesseri seguiti prima alla “polverizzazione” del corpo sociale come organismo unitario e chiaramente organizzato, e poi alla ristrutturazione individualista che ha spostato fortemente il baricentro dal “noi” al “self”, senza che ciò comportasse una reale autonomizzazione del singolo dal collettivo o un percorso individuativo (Maffesoli, 2004).


Il conseguente sintomo evidente e diffuso della solitudine è a diversi livelli sotto gli occhi di tutti e agli onori delle cronache. La spinta verso la ri-aggregazione sociale (la “tentazione comunitaria” secondo Maffesoli) si attua oggi a partire non tanto da un’istanza organizzativa superiore e finalistica (l’Ideale, il Partito, il Valore) ma in una direzione che privilegia “la qualità relazionali intensiva nel presente” (ibid.).

Si tratta di una “socialità elettiva”, neo-tribale, organizzata per coppie e piccoli gruppi che riconoscono all’evento affettivo (non nel senso comune di “sentimentale”, ma nel senso proprio della psicologia di “afferente alle emozioni”) il vero scopo e il primo motore del loro aggregarsi, e dove “è la relazione stessa più importante degli elementi collegati” (ibid.)


In azienda la polverizzazione delle specializzazioni e dei percorsi unita al gigantismo di alcune organizzazioni su scala multinazionale, ripropone la condizione di un individuo paradossalmente isolato, che – pur affidato ad una rete organizzativa che ne definisce il ruolo e lo scopo – avverte sul piano soggettivo la difficoltà a condividere con altri il proprio percorso di senso, non solo tecnico-professionale ma più ampiamente umano.


A tale stress da solitudine la formazione one to one offre una risposta nuova e specifica promuovendo momenti di incontro definiti nelle coordinate spazio temporali e quindi offrendo una potenziale possibilità di approfondimento e rielaborazione dell’attività quotidiana in un ottica di senso.


Ulteriore deriva della iper-frammentazione sociale e della conseguente estrema diversificazione delle competenze e dei ruoli, è la grande difficoltà vissuta dal singolo nel “rimanere aggiornato” sia rispetto al sapere aziendale sia rispetto al contesto, che a sua volta assume dimensioni via via più ampie, globali. Non è più neppure sufficiente coltivare il sapere tecnico specifico che nelle società moderne identificava con sicurezza una classe e un’appartenenza professionale.


Oggi si tratta invece di sviluppare saperi complessi che mettano il singolo in relazione con quella classe lavoratrice trasversale che “lavora comunicando”, e quindi creando e dissipando costantemente sapere e informazione (Bonomi, 1996).

Lo spaesamento cognitivo e identitario che ne deriva non può più trovare risposta nell’ottimistico e programmatico accumulo di conoscenze di tradizione illuminista, e la nozione stessa di “aggiornamento” deve forse essere rivisitata, o almeno integrata.

Con Morin (2001), possiamo riformulare il generico bisogno di aggiornamento secondo il principio della “conoscenza pertinente”, uno di quei “sette saperi” posti alla base di un nuovo concetto di educazione/formazione.


La conoscenza individuale diventa “pertinente” e quindi efficace, se tiene conto:

  1. del contesto, inteso come insieme di altre singolarità e dati isolati;

  2. del globale, inteso strutturalmente come relazione tra il tutto e le sue parti,

  3. del multidimensionale, ovvero della natura polimorfa di ogni dato di informazione, che può essere letto e interpretato da uno sguardo differente (economico, tecnico, sociale, ecc), riflesso della natura multidimensionale dell’individuo stesso;

  4. del complesso, non nel senso di complicata, ma nel senso di “intessuta insieme”, non semplificatoria e schematica.


Per rispondere al bisogno di sapere efficace, si tratta quindi di controbilanciare l’aggiornamento specializzato da una parte (indispensabile alla qualificazione tecnico-professionale), con la ri-valorizzazione dell’”intelligenza generale”, capace cioè di tenere conto delle reti e dei nessi che rendono le singole unità di sapere una vera e propria cultura (individuale e aziendale).


Una ulteriore necessità avanzata dall’individualità tardo-moderna consiste nel già ampiamente noto bisogno di sviluppare nel progetto professionale aspetti della personalità sentiti come vitali e creativi (il “bisogno di realizzazione” della classica scala di Maslow), bisogno che si ripropone oggi con nuova urgenza in corrispondenza dell’indebolirsi da una parte di un “progetto collettivo” (sia esso politico, ideale, intellettuale) in cui inscrivere il proprio percorso, e dall’altra di una prospettiva professionale centrata sul “carrierismo” tout court.


In altri termini, se i quarantenni lavoratori oggi dichiarano di preferire “un ruolo professionale di minore responsabilità, ma che lasci tempo per sé” è per segnalare il distacco dagli obiettivi professionali unilaterali e lasciare riemergere una domanda realizzativa e di senso più complessa, che coinvolge naturalmente anche le prospettive professionali e i luoghi di lavoro.


Vivere e lavorare secondo una propria “vocazione”, o almeno tenendo conto di talenti e tratti autenticamente personali non è più sentito un lusso illusorio, riservato a quei pochi impegnati in professioni e ruoli stereotipicamente considerati creativi, o chiamati precocemente da un talento eccezionale. Al contrario, coltivare la relazione con quella parte di sé che non è il frutto di determinismi né familiari né ambientali, ma rappresenta la porzione irriducibile e personalissima di libertà e destino, sembra oggi essere – a tutti i livelli – la vera risposta alle varie forme di de-motivazione, depressione, implosione soggettiva e sociale (Hillman, 1997).


Ancora, proprio in un momento in cui le forze disgreganti acquistano potere a livello personale e collettivo, emerge spontaneamente un bisogno contrario e auto-conservativo di “riparazione”, per cui il soggetto fa fronte alle pulsioni dissociative investendo con rinnovata energia nel progetto di sé, ed in particolare nell’attività lavorativa e creativa (Klein, 1969).


Un rinnovato impegno in un progetto professionale altrettanto capace di rinnovarsi - a partire dalla proposta formativa e dalla capacità di ascolto dell’individualità - può così continuare a fornire energia creativa alla persona, ma anche alla società e alle aziende capaci di entrare in questo processo.


Infine, una ulteriore declinazione dei bisogni nasce proprio dalla contraddizione profonda che le persone spesso vivono tra il desiderio e la passione che alcuni aspetti del lavoro suscitano e altri elementi che rendono l’erogazione dell’attività lavorativa estremamente stressante. Un esempio per tutti potrebbe essere costituito dal tempo che oggi il lavoro richiede e che, d’altro canto, l’individuo sembra disposto a dare in virtù di uno scambio identitarie sempre più radicale (Bombelli, 2004).



Il progetto Ikea – Self Managed learning


Il caso proposto ha tentato di tenere insieme le diverse istanze, quelle organizzative e quelle individuali, secondo un percorso che trovasse momenti di equilibrio tra istanze tra loro potenzialmente conflittuali.


Un primo equilibrio riguarda l’one to many e l’one to one.

Una scelta esclusiva della dimensione one to one avrebbe corso il rischio di scivolare verso una situazione troppo potenzialmente diversificantesi sia in termini di obiettivi che in termini di stili di conduzione. In altre parole le traiettorie di apprendimento individuale ancorché potenzialmente utili ai singoli non avrebbero potuto produrre quel sentimento di appartenenza che costituisce il risultato impliciti di qualsiasi attività formativa ben condotta.


Questa è inoltre stata una precisa scelta del committente, la Direzione del Personale di Ikea Italia, che sviluppando una suggestione partita dall’headquarter ha inteso utilizzare il self managed learning come un momento a valle nella formazione d’aula prevista in un corso di sviluppo già abitualmente inserito nei programmi formativi dell’azienda.


Un secondo elemento di contenimento del personalismo insito in una situazione one to one è stato trovato nella cornice organizzativa univoca di riferimento data ai coach. Questa cornice, che fornisce il collegamento tra il momento d’aula e il momento personalizzato, è rintracciabile nella formazione e supervisione condivisa e nello strumento di assesment utilizzato quale momento di inizio dei colloqui. La scheda come base di discussione era anche vista come occasione di esplicitazione di un momento di analisi del fabbisogno formativo e, quindi, di definizione degli obiettivi di apprendimento desiderati.

E’ in questo modo che il momento one to one, pur avvalendosi della relazione personale come potente elemento di motivazione e rispecchiamento, ritorna a diventare uno strumento organizzativo in senso pieno.


L’analisi del fabbisogno, condotta nella primo incontro a due, con il supporto della scheda di valutazione personale, consente di aprire un primo e significativo dialogo rispetto alla dimensione di accordo che le persone trovano nella valutazione e come punto di partenza di un dialogo approfondito che, in assenza di uno strumento univoco, potrebbero molto dipendere dalla fluidità relazionale che si instaura.


Un momento iniziale quindi con diversi scopi: avviare un dibattito di contenuto che consenta l’istaurarsi di una relazione, iniziare un confronto di rispecchiamento organizzativo (l’organizzazione ti ha visto in questo modo, quali sono le dimensioni di accordo / disaccordo), entrare nel merito delle aree di carenza soggettiva che si vogliono / possono colmare attraverso il percorso di apprendimento.


I risultati di questa analisi di fabbisogno hanno fatto emergere situazioni molto differenziate, elemento che ha immediatamente deposto a favore della scelta one to one.

Si sono incontrate necessità di tipo tecnico specialistico, carenza di modelli cognitivi necessari ad esempio ad affrontare mutamenti di ruolo, piuttosto che bisogni di meglio comprendere i propri comportamenti e le cause che li inducono, in modo da riflettere su elementi di natura personale.


La coppia congiuntamente ha poi costruito un progetto di percorso di apprendimento che poteva essere estremamente differenziato e personalizzato.

Le risorse per attivare il processo formativo potevano essere sia interne che esterne all’azienda. Per fare un esempio concreto se la persona necessitava di una formazione al controllo di gestione si poteva interpellare il responsabile aziendale per un incontro finalizzato a trasferire informazioni o a chiarire dubbi. Nel caso in cui si volessero approfondire aspetti di comportamento la coppia poteva decidere se lasciare all’esperienza del coach la possibilità di rispondere oppure se interpellare una persona esterna.


Anche nel caso di apprendimenti complessi si poteva decidere, previa consultazione con la direzione del personale, se far intraprendere al coachee un percorso strutturato di formazione ad esempio appoggiandosi ad una realtà esterna.


Il setting progettato consentiva quindi di raggiungere obiettivi di apprendimento specifici su fronti differenziati. Convivevano nel gruppo esigenze di approfondimenti specialistici così come necessità di lavorare su aspetti personali di comportamento organizzativo: esigenze difficilmente affrontabili in un percorso l’aula collettivo e, di conseguenza, uniforme. Allo stesso modo il fatto che i coach fossero persone ad anzianità aziendale rilevante dava la possibilità di lavorare anche su elementi di natura culturale spesso nel gergo aziendale sottolineati in modo valoriale con ciò “che è Ikea e ciò che non lo è”.


A queste esigenze culturali, ma legate strettamente alla formazione, se ne possono aggiungere altre anch’esse di natura soft. Lo sviluppo di un gruppo di coach con modelli condivisi nelle intenzioni della Direzione del Personale e delle consulenti avrebbe consentito di attivare modelli manageriale più diffusamente orientati all’ascolto dei collaboratori e allo sviluppo di percorsi di apprendimento.


Se si considera la classificazione terminologica riportata all’inizio di questo lavoro l’utilizzo del termine coaching nel progetto che viene presentato risulterebbe improprio. Per scelta chi eroga il servizio non è il capo diretto, ma una persona senior all’interno dell’organizzazione. Per quanto riguarda l’erogatore del servizio, quindi, il self managed learning si avvicinerebbe più al mentoring che al coaching. D’altro canto la disponibilità a dare risposta e accoglimento alla dimensione soggettiva dell’individuo e ai suoi bisogni “allargati”, con una prospettiva di formazione che travalica i limiti dei contenuti strettamente tecnici normalmente offerti dalla formazione, colloca l’intervento tra il coaching e il counseling.


Come risposta ai bisogni soggettivi il Self managed learrning nei suoi presupposti programmatici fornisce l’opportunità di riaggregare socialmente le persone integrando quelle che potremmo definire “istanze di scopo” (dell’organizzazione) alle più personali “ istanze di senso”.


La relazione duale coach-coachee e quella gruppale tra i coach, investiti del ruolo su base anche volontaria e di adesione al progetto, riproduce così almeno in parte i legami e le strutture di una socialità elettivo-affettiva che, mentre perseguono un obiettivo collettivo e organizzativo, danno risposta in modo nuovo al bisogno antico di appartenenza.


Difficile quindi dare una etichetta univoca che rappresenti il percorso sviluppato: al di là della terminologia è importante quindi riflettere sulle motivazioni che hanno indotto questa scelta, sugli obiettivi e sulle problematiche incontrate. Il progetto, come si vedrà, è sostanzialmente positivo, ma offre utili spunti di riflessione anche sugli elementi di criticità e su come superarli.


Il progetto, partendo dalle considerazioni precedentemente sviluppate aveva l’obiettivo di coniugare diverse delle esigenze organizzative e individuali descritte.

Dal punto di vista della formazione come strumento di “manutenzione alle competenze individuali” il progetto intendeva modulare in modo personalizzato la seconda parte di un percorso che iniziato in modo collettivo.


Contemporaneamente, nella logica del self managed, si intendeva sviluppare una forte corresponsabilizzazione delle persone nella propria formazione. Tema questo di grande rilevanza perché sposta il focus di attenzione dalla posizione / prestazione, ad un percorso individuale di crescita professionale e personale, co- progettato tra le persone e l’azienda.


Ancora, l’utilizzo di tradizionali strumenti di assesment consente di mettere in comune i reciproci punti di vista circa la validità e i risultati degli strumenti utilizzati. Tanto maggiori e qualificati sono i momenti di confronto sui risultati di assesment tanto più aumenta la percezione di equità e la possibilità soggettiva di introdurre il proprio punto di vista. D’altro canto questi momenti di confronto hanno anche l’obiettivo di migliorare la consapevolezza individuale circa le proprie competenze e i propri limiti ( Cei, Dini, 2004).


Il percorso doveva poi essere congiuntamente monitorato per verificare il raggiungimento degli obiettivi. Infine, ma forse come aspetto più importante, vi era l’obiettivo di integrare nell’organizzazione la dimensione individuale come risorsa.


L’itinerario del progetto poco di discosta da quello proposto da Goeta (2000) come counseling. Analogamente viene rogersiamente “centrato sul cliente” e attiva importanti aspetti emozionali. La differenza sostanziale consiste nel ruolo del couselor, o, come viene denominato in questo progetto, del coach: non un professionista esterno, ma una persona interna all’azienda.


I diversi ruoli ricoperti nel progetto sono assimilabili alla distinzione introdotta da Fatali, Cardini e Sprega (2002) circa un coaching primario, secondario e terziario. Il coaching primario è svolto da qualcuno di esterno all’azienda che supporta i manager in una attività di ricerca dei propri punti di forza e di debolezza. In questo modo, riflettendo su sé stesso il manager svolge un lavoro di autgocoaching – il secondario – che gli servirà da un punto di vista metodologico per sviluppare le competenze soggettive per supportare i proprio collaboratori in attività di coaching.



I colloqui nel Self Managed Learning


Il colloquio di coaching e/o counseling si inserisce nella più lunga tradizione dei colloqui di sostegno in ambito terapeutico e sociale con caratteristiche distintive evidentemente peculiari, descritte in molta letteratura.

Tuttavia, nel caso specifico del progetto qui descritto, i colloqui sono stati erogati con presupposti di ruolo, setting e finalità che ne determinano una natura “ibrida”e articolata, a cavallo tra diversi ambiti e strutture più note.


Infatti, a differenza del colloquio di coaching più classico, la relazione non presupponeva – ed anzi escludeva a priori – un rapporto gerarchico e organizzativo diretto tra coach/coachee, e di conseguenza una frequentazione quotidiana e continuativa. La distanza organizzativa, e spesso anche geografica, dei componenti della coppia richiedeva che il setting venisse di volta in volta stabilito nei modi e nei tempi, con una modalità più assimilabile al counseling e alle relazioni di aiuto.

Contemporaneamente, i colloqui sono stati erogati non da professionisti del sostegno (da consulenti esterni), bensì da personale aziendale di elevata esperienza, ma senza competenze specifiche circa le modalità di colloquio di sostegno. La formazione dei coach non ha avuto, ovviamente, la finalità e l’ambizione di creare dei “professionisti”, ma quella di fare maturare una sensibilità al colloquio che fosse sostenibile, pertinente al contesto e divulgabile in azienda.


Vorremmo ora sistematizzare non tanto il “modello ideale” di colloquio applicabile in assoluto, quanto invece dare conto della metodologia e della prassi effettivamente utilizzata e delle competenze attivate.

Il primo presupposto condiviso ha riguardato la natura del colloquio, definito come processo interattivo che coinvolge almeno due persone, diverso dalla semplice conversazione in quanto l’interazione è orientata al conseguimento di un obiettivo predeterminato (Salomé, 1996).


A partire da questa consapevolezza, che connota ogni incontro come “dedicato” e in parte ritualizzato all’interno delle molteplici modalità di scambio nell’organizzazione, il colloquio si qualifica in questo caso nella messa in campo di alcuni elementi costitutivi: a) la definizione del setting, inteso in senso lato come l’insieme delle regole e dei parametri (luogo, tempo, frequenza) espliciti e impliciti che costituiscono il campo d’azione dell’intervento e dell’incontro; b) le competenze relazionali dell’erogatore, rivolte alla regolamentazione rapporto con il coachee e della propria modalità d’interazione; c) le competenze eteroriferite, ovvero rivolte all’orientamento del coachee, al sostegno e al problem solving.


La strutturazione del setting nel processo di Self Managed Learning - come in altri processi di coaching interni alle aziende - è composta in due momenti differenti.

Una prima parte di parametri sono definiti dal “setting organizzativo”: alcune “regole del gioco” vengono fissate come a-priori aziendale, con il supporto delle consulenti esterne. La decisione di chi e in quale ruolo potesse fare parte del progetto, delle risorse dedicate, hanno definito un primo set di riferimenti.


In un contesto così predeterminato, è importante tutelare almeno in parte il principio della “libertà della richiesta” da parte dell’utente consentendo un’adesione facoltativa e una motivazione autodeterminata del coachee, vero presupposto per generare un processo di apprendimento di alta qualità (Lis, Venuti, De Zordo 91)

A ciò si aggiunge una parte di “setting variabile”, stabilito cioè liberamente dalle coppie sulla base delle esigenze dell’utente e dell’andamento della relazione.

Un buon colloquio si predispone: a) in un luogo dedicato: raccolto, riservato, che favorisca la conversazione; b) in un tempo definito e ritmato, pattuendo il tempo a disposizione per ogni incontro e la periodicità degli incontri, patto che va rispettato da entrambi gli elementi della coppia c) tenendo conto ed esplicitando le caratteristiche individuali e di ruolo dei partecipanti (chi si è, che posizione si occupa, con quale intento si è in quella situazione).(Salomé 96)


La focalizzazione sulle competenze relazionali, attinenti soprattutto alla dimensione emotiva e affettiva dell’erogatore, è funzionale a richiamare quel senso di responsabilità e cognizione di ruolo che – a nostro avviso- è un imprescindibile fondamento etico di qualsiasi relazione di aiuto e/o sostegno, anche se ben distante da finalità terapeutiche.

Nel momento in cui un soggetto si pone per sua volontà in un ruolo di sostegno, egli si assume di fatto il compito di maturare e auto- monitorare alcune competenze fondamentali:


  • competenze comunicazionali 🡪 primo obiettivo è stabilire un rapporto e una comprensione condivisa, che comporta abilità nella ricezione/ascolto, nell’inviare i messaggi corretti, e abilità intraindividuale o di autoconsapevolezza (Ricci Bitti e Caterina 1994)

  • consapevolezza delle dinamiche transferali 🡪 assunto che “il transfert è attivo in ogni relazione significativa” è importante sviluppare capacità di lettura delle più frequenti configurazioni transferali, dei meccanismi di difesa, per poterli moderare dove rappresentano un impedimento (riproposizione della dipendenza), o utilizzare ai fini del sostegno (l’idealizzazione e l’identificazione come meccanismi di costruzione di sé)

  • assunzione di ruolo non giudicante e non valutativo 🡪 guidato non tanto da una fredda neutralità, quanto invece da una atteggiamento di “rispecchiamento” che accolga la libera espressione dei bisogni e delle diverse istanze del coachee, e gli consenta di proseguire in un percorso di auto-riflessione.


L’abbandono di questa posizione e la scelta di “scendere in campo” esprimendo un chiaro giudizio rispetto a un tema, costituisce sempre una decisione forte gestita con consapevolezza e la mediazione dell’organizzazione.


In altri termini, è importante chiarire a priori quanto potere di delega ha il coach rispetto alla gestione del percorso formativo nel suo insieme, e quanto deve fungere da mediatore nell’erogazione dei contenuti formativi nel loro complesso, per evitare che la relazione coach/coachee rappresenti una facile “semplificazione” della relazione nell’organizzativa esonerando il coachee dalle fatiche del confronto.


Le competenze che definiamo “eteroriferite” coinvolgono soprattutto la dimensione cognitiva del coach, e si esplicano nella sua capacità di leggere, interpretare e ri-strutturare “strategicamente” l’orientamento cognitivo dell’utente stesso (Nardone, 2004).

A partire dal primo colloquio di assesment, in cui vengono riletti e commentati i test diagnostici psico-attitudinali e vengono stabiliti gli obiettivi dell’intervento a breve e medio termine (Sanavio, 1991) il coach è impegnato in una duplice direzione:


  • orientamento formativo:

    • raccogliere e ridefinire la richiesta di nuove competenze e le aspirazioni personali, sistematizzandole e rendendole il più possibile attuabili nel processo di SML (oggettivare)

    • sottolineare e valorizzare il potenziale latente del soggetto e definire congiuntamente la modalità per svilupparlo

    • confrontare (con l’aiuto eventuale dei test diagnostici già utilizzati dall’organizzazione, come in questo caso) il soggetto con le aree di debolezza e di ottimizzazione, centrando l’attenzione sul contenuto e astenendosi da modalità valutative.


  • sostegno organizzativo, in presenza di problematiche e disagi relativi a cambiamenti organizzativi o situazioni pregresse. Si tratta, secondo la scuola di Nardone (ibid.) di condurre il colloquio per modificare il campo percettivo del soggetto, in modo da

    • sviluppare un altro punto di vista

    • lasciare emergere la soluzione come risposta spontanea del ri-orientamento cognitivo, astenendosi dal dare consigli o suggerire soluzioni prematuramente

    • minimizzare i comportamenti distonici del soggetto nel suo ambiente, in quanto evidentemente disfunzionali al suo benessere e ai suoi scopo auto-realizzativi.



Valutazione dell’intervento


Il progetto ha raggiunto gli obiettivi che venivano dichiarati. In particolare nel personalizzare e responsabilizzare le persone soggettivamente rispetto al proprio processo di apprendimento e per raggiungere una più completa comprensione del proprio ruolo lavorativo e una maggiore consapevolezza dei punti di forza e di debolezza posseduti (Rotondi, 2001). Importante anche il risultato di mood complessivo, impossibile da valutare compiutamente, ma che si può interpretare, nelle parole di apprezzamento, come di senso complessivo ritrovato in una attività quotidiana convulsa che spesso rischia di essere anestetizzante.


Le competenze fornite nel processo formativo sono giudicate dai coach utili per diversi momenti della loro vita professionale. Dal punto di vista dell’organizzazione si è costruito un linguaggio comune e la condivisione di modelli di relazione tra le persone che possono diventare parte della cultura organizzativa.


Sempre dal punto di vista organizzativo il percorso si è rivelato utile per meglio comprendere le diversità funzionali all’organizzazione e come queste possano essere preservate dal rischio di appiattimento. Inoltre, lo sviluppo di una relazione significativa con un referente non gerarchico ha aumentato la consapevolezza della complessità e dello spessore dell’organizzazione.


E’ stato inoltre sottolineato come positivo avere un tempo definito che costringe negli aspetti organizzativi di definizione degli obiettivi dell’intervento, di costruzione del percorso e di verifica.

A consuntivo, è necessario anche un controllo della variabilità delle coppie nel fissare frequenza e modalità dei colloqui, come tutela dello stesso setting: maggiore strutturazione comporta maggiore soddisfazione dell’utente, altrimenti disperso nella gestione del quotidiano.


Inoltre, le competenze relazionali, comunicative e pragmatiche maturate nella conduzione di un incontro “duale” hanno consentito una crescita professionale e personale a tutti gli attori coinvolti nel processo, creando un positivo effetto- alone nel clima dei gruppi inetr-aziendali.

In particolare, l’esercizio di rispecchiamento e il conseguente “decentramento” del punto di vista ha permesso di sviluppare qualità empatiche e apprendimento emotivo, utile per un migliore scambio interpersonale in tutte le funzioni organizzative.

Questo traguardo formativo è stato restituito dai partecipanti in termini anche di un rafforzamento dell’auto-stima e del senso di self efficacy.



A fronte dei numerosi vantaggi, nelle discussioni collettive durante e in conclusione del progetto si sono anche messi in luce alcuni rischi, alcuni trasversali alle diverse forme di formazione one to one.


In primo luogo ogni setting che implica un forte coinvolgimento personale rischia di invadere un campo terapeutico che deve necessariamente essere tenuto distinto.

E’ pertanto molto importate definire dall’inizio un “contratto” chiaro tra i due interlocutori, che prima verifichi l’effettiva volontarietà (motivazione) dei soggetti coinvolti, e poi attribuisca obbiettivi, ruolo e perimetro dell’intervento.


Noi riteniamo che anche in presenza di richieste di crescita personale complessiva, che riguardino aspetti di personalità del coachee, il coach deve limitarsi a segnalare e supportare una “evoluzione spontanea”, segnalando le aree di debolezza e problematicità senza tuttavia prendere in carico tematiche che eccedono i limiti di un contesto organizzativo.

Come “cintura di sicurezza” al programma è stata data la possibilità di ricorrere – quando necessario – al supporto di professionalità esterne, che contenessero eventuali emergenze di natura schiettamente terapeutica.


Un secondo elemento di criticità, questa volta sul versante organizzativo, riguarda il rischio di poca integrazione con i processi di gestione del personale strutturati quali formazione tradizionale, valutazione e sistema premiante. Nel caso descritto, essendo l’attore fondamentale la Direzione del Personale, il rischio è stato contenuto. Si sono verificati in alcuni casi limitati, scostamenti di interpretazione del processo da punto di vista del coach e del capo diretto. E’ necessario, di conseguenza, curare la dimensione informativa e di coinvolgimento dei capi diretti, soprattutto se non coinvolti come coach nel percorso.

Un altro aspetto di difficoltà denunciato riguarda la difficoltà per i coach a tenere distinti i momenti di coaching da quelli organizzativi. E’ stato questo un ambito di apprendimento, facilitato dal costruire in modo preciso anche in termini simbolici, i tempi e gli spazi del colloquio.


In questa esperienza non si sono verificate , anche se lo potevano assolutamente, le barriere al coaching descritte in letteratura quali la sovra sottostima delle proprie competenze da parte del coach, la eccessiva diversità tra i due soggetti, la discrepanza tra le attese individuali e i progetti organizzativi (Hunt, Weintraub, 2002).


Nessuno ha chiesto di cambiare coach dopo il primo incontro, segno anche di una buona sensibilità della Direzione del Personale, nella formazione delle coppie. Gli abbinamenti, seppur svolti con criteri massimamente organizzativi (non subordinazione, competenze richieste dal coachee), hanno anche tenuto conto di elementi più relazionali, formulando delle ipotesi su una base molto intuitiva di conoscenza delle persone.


Conclusioni

La progettazione del percorso proposto ha cercato di salvaguardare una serie di equilibri che si ritengono indispensabili per limitare le problematiche inerenti alla formazione one to one e sviluppare invece gli aspetti positivi insiti nello strumento.


Il primo equilibrio si è ottenuto integrando il setting one to many con quello one to one, nella convinzione che entrambe le modalità posseggono delle potenzialità esclusive. La prima nel creare modelli e cultura condivisa e soprattutto per fornire le condizioni per una costruzione del gruppo e di un network che travalica l’aula e rimane nell’organizzazione come preziosa risorsa di sostegno reciproco e di condivisione di conoscenza. E’ questo un elemento da non sottovalutare nella progettazione di percorsi formativi e che spesso non è un obiettivo esplicito dell’attività.


Dal suo canto la dimensione one to one consente quella personalizzazione che costituisce un emotivo riconoscimento della persona come centrale nell’organizzazione da un lato, ma anche il perseguire obbiettivi formativi specifici, dall’altro.

Anche nel caso dell’integrazione, la formazione one to one necessita di alcune cautele che devono essere tenute presente per non vanificarne l’efficacia. E’ necessario mantenere in modo saldo alcuni principi che hanno ispirato la formazione tradizionale e che, nel caso della one to one, possono prevenire elementi di soggettivismo e di sfilacciamento più probabili in un setting duale.

In primo luogo la definizione e l’accordo sugli obiettivi. Anche nella formazione one to one il rischio della perdita di tempo, della scarsa finalizzazione e della “estemporaneità” della attività è in agguato. E’ necessario quindi, in primo luogo da parte della Direzione del Personale, e poi dai coach, un rigore metodologico che consenta la costruzione di un contenitore il più possibile omogeneo e condiviso. E’ questa anche la precondizione per sviluppare un contratto psicologico che aiuti a definire in modo più chiaro il confine tra formazione e terapia spesso, come già sottolineato, labile in questa tipologia di iniziative.


Il percorso sviluppato ha inoltre dimostrato come sia difficile etichettare questi processi dal punto di vista del coaching, mentoring o counselling . Nel nostro lavoro la persona che svolgeva il colloquio aveva diverse funzioni che, in diversa misura, potevano ascriversi a tutte e tre le tipologie descritte in letteratura. Si può anche aggiungere che in alcuni momenti i coach, svolgevano anche il ruolo di tutor, inteso come colui che supporta nel riconnettere diversi elementi sparsi di un processo di apprendimento d’aula (Marletta, 1997). Appare quindi inutile una distinzione terminologica, anche per i labili confini che essa contiene, quanto viceversa appare necessario confrontarsi sul percorso formativo ipotizzato in termini di obiettivi, competenze di gestione dei colloqui e delle relazioni e, soprattutto di valutazione dei risultati.


E’ quella della valutazione una delle aree più critiche nella formazione, criticità che diventa ancora più ampia quando si lavora nella dimensione one to one.

Da un punto di vista generale valgono le considerazioni di Carmagnola (2004) che si concentra sulla definizione di valore, in generale per le organizzazioni odierne, ma soprattutto in collegamento alla formazione. Nella difficoltà di dare interpretazioni univoche e generalizzanti conclude che la formazione deve lasciare “spazio di riflessione e risposte creative e attive che riguardano il significato del proprio agire in una determinata situazione e le sue possibili dimensioni alternative” (pag. 256).


Condividendo questa riflessione il percorso proposto, lasciando ampi spazi di discrezionalità, sia nella definizione degli obiettivi, che dei percorsi di raggiungimento, recupera la dimensione individuale, senza costringere in percorsi formativi prefissati ed uniformanti.

D’altro canto la valutazione sia soggettiva, che della coppia coach – coachee, ed anche dell’organizzazione che rende possibile e agisce il processo nel suo complesso si collega ad un processo, con una fonte di dati trasparente (Weiss, Kolberg, 2003).




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Scheda descrittiva: SELF MANAGED LEARNING IN IKEA


Le fasi del progetto:


Formazione in aula

L’intervento di self managed learning si situa a valle di un intervento formativo d’aula di general management con elementi specifici del settore di appartenenza (grande distribuzione di mobili e oggetti per la casa).

L’intervento formativo si conclude con un progetto che accentua l’enfasi del “saper fare”.


Percorso personalizzato:

Il percorso personalizzato vede come attere centrale la Direzione del Personale che coordina l’intero itinerario organizzativo.

Possiamo sintetizzare le seguenti fasi:


  1. Individuazione dei coach

  2. Condivisione del percorso, degli obiettivi e della durata tra coach, coachee, Direzione del Personale e consulenti

  3. Formazione ai coach

  4. Inizio del percorso di coaching

  5. Conclusione e valutazione dei risultati in riunione congiunta tra coach, coachee e consulenti


Descriviamo ora brevemente le diverse fasi sottolineando eventuali problematiche riscontrate.


  1. Individuazione dei coach. Si tratta di persone senior sia per età che per esperienza aziendale che, su richiesta della Direzione, hanno dato la loro personale disponibilità. Sono stati coinvolti nel ruolo di coach persone con posizioni gerarchicamente rilevanti, fino all’Amministratore Delegato.

Anche il delicato momento di formazione delle coppie è stato curato dalla Direzione del Personale cercando un equilibrio tra diversi elementi. In primo luogo si è evitato in modo tassativo che tra coach e coachee esistesse un rapporto gerarchico diretto. Si sono ipotizzate anche delle sintonie di natura personale e delle necessità da parte del coachee di alcuni contenuti professionali specifici. Si ricorda che questo momento giunge a valle di un percorso formativo in cui si è avuto modo di conoscere a fondo le persone e si è già somministrato alle persone in formazione un questionario attitudinale che ha messo in luce alcuni tratti personali caratteristici.

Nella fase 2 si contratta in ogni caso la disponibilità alla modifica delle coppie qualora uno dei due soggetti esprimesse delle riserve personali dopo il primo colloquio. Tale disponibilità non è stata utilizzata da nessuna delle coppie.


  1. Il momento di condivisione del percorso da parte di tutti gli attori è cruciale per rendere omogeneo il percorso dal punto di vista del contenitore organizzativo pur lasciando poi libertà di scelta e discussione dei contenuti alle singole coppie. E’ inoltre luogo di esplicitazione collettiva del contratto formativo e momento di disamina di eventuali dubbi personali, soprattutto da parte dei coachee.


  1. La formazione ai coach è stata curata con due giornate d’aula in cui si sono chiarite le prospettive teoriche e i riferimenti pratici per svolgere l’attività di analisi del fabbisogno, di progettazione e di verifica. Molto spazio è stato dedicato agli aspetti critici della relazione di aiuto. Durante l’itinerario si sono poi svolti due incontri di supervisione per condividere le eventuali criticità incontrate e le modalità di soluzione adottate.


  1. Gli incontri tra coach e coachee prevedevano un itinerario comune che possiamo così sintetizzare:

  • analisi congiunta della scheda di assesment somministrata dalla Direzione del Personale con il supporto di una società esterna

  • definizione congiunta del fabbisogno formativo:

  • definizione degli obiettivi e dei contenuti del processo personalizzato. L’itinerario formativo proposto si avvale di diverse risorse a seconda degli obiettivi. Nel caso in cui le necessità formative siano di tipo tecnico – specialistico si procede ad identificazione una persona che in azienda può aiutare il coachee nel percorso di apprendimento; nel caso in cui gli obiettivi formativi siano più legati alla cultura aziendale o a quella “conoscenza implicita” che pervade l’azienda, l’intervento viene gestito direttamente dal coach. Relativamente agli aspetti di comportamento organizzativo agisce direttamente il coach analizzando i “casi critici” incontrati dal coachee e sostenendo nello sviluppo delle competenze. In casi di problemi delicati o difficili, i coach hanno la possibilità di organizzare incontri con le consulenti esterne che supportano l’intero progetto.


  1. La valutazione dei risultati è stata compiuta prima separatamente e poi congiuntamente, con i diversi attori del progetto.

Vi è stata una valutazione di merito relativamente all’apprendimento e di soddisfazione relativamente al processo che è stato messo in atto. Il consenso riscontrato è stato pressoché unanime. Molto positivamente è stata valutata la relazione costruita dalle coppie , valutata come un elemento permanente oltre la conclusione del percorso “ufficiale”. Solo in un paio di casi il tempo dedicato è stato giudicato insoddisfacente per problemi di carichi di lavoro dei coach che hanno impedito la sedimentazione di una relazione stabile e duratura.




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