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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Diversity management: un’idea da sviluppare

Che sia in atto una “human capital revolution” per dirla con Gary Becker, pochi ne hanno dubbi. La trasformazione in atto delle imprese in contesti knowledge intensive e la criticità costituita dalle cognizioni e dai comportamenti dei singoli sono sotto gli occhi di tutti.

In questa situazione le imprese devono ripensare al loro rapporto con le persone che in esse operano sia da un punto di vista culturale che relativamente agli strumenti di gestione.

Le culture, come è noto, non possono essere introdotte in modo meccanico: esse si formano e derivano dalla storia della società e della singola impresa. E’ necessario allora, per rivedere le modalità di scambio tra persone e imprese, tenere conto di una cultura delle relazioni industriali non propriamente sintonica. I vertici aziendali, così come le loro controparti sindacali hanno radicati comportamenti di sfiducia reciproca, che si traduce in diffidenza e che si àncora ad un paradigma di controllo.

Questa breve riflessione introduttiva ha lo scopo di mettere in guardia relativamente a strumenti innovativi di gestione, quale è il diversity management che qui si propone, che seppur affascinanti devono poi essere situati nella realtà concreta. Di conseguenza una premessa necessaria riguarda l’atteggiamento di fondo verso le persone che devono essere intese come risorsa importante e critica per le imprese del nuovo millennio.


Da questa considerazione di fondo nasce l’esigenza di interrogarsi su quali siano, non solo le competenze di cui per persone sono portatrici, ma anche i valori, i bisogni e i desideri.

Questa capacità manageriale di ascolto non si lega solo alla necessità di trovare nuovi trade off nel rapporto di scambio tra le persone e le imprese.

Dietro questa esigenza si nasconde un fenomeno nuovo e irreversibile che può essere definito come una complessificazione delle esigenze. Mentre un tempo non lontano, gruppi numerosi di persone aggregavano le loro esigenze su valori sufficientemente comuni, oggi la ricchezza diffusa insieme alla caduta di modelli sociali forti e coesi, portano ad una diaspora di richieste che le persone fanno alla società e ai loro datori di lavoro.

Un esempio di quanto si sta affermando è possibile riscontrarlo nella storia della gestione del segmento femminile del mercato del lavoro, storia che in qualche modo è paradigmatica dell’affacciarsi del tema delle differenze. Tralasciando gli albori di una distinzione che identificava le donne e i fanciulli come un segmento debole del mercato del lavoro da proteggere, la prima fase ha riguardato la diffusione di una cultura di parità e di uguaglianza che, evitando discriminazioni legate alla differenza, salvaguardava nelle organizzazioni un principio di equità. La fase successiva, che può svilupparsi quando si è diffusa una cultura della parità di opportunità, si caratterizza per l’inserimento nelle prassi organizzative di logiche di valorizzazione delle differenze.

La declinazione di tale principio avviene attraverso la cittadinanza organizzativa di esigenze che possono andare da una modalità diversa di organizzazione dei tempi di lavoro, fino alla realizzazione di sistemi premianti differenziati che accolgano scale di priorità individuali.

Le differenze di genere sono state per molte organizzazioni un banco di prova del Diversity Management. Oggi si affacciano nelle aziende italiane differenze molto visibili di nazionalità e di etnie che portano con sé valori di riferimento e attese differenziate.

Diversity Management significa allora mettere in atto strumenti di gestione delle persone che mettano in luce le differenze e che le sappiano ascoltare e decodificare. In estrema sintesi si potrebbe affermare che è necessario che le imprese sappiano studiare i loro “clienti interni” con la stessa attenzione e sofisticazione di strumenti con cui hanno analizzato i ben più importanti clienti esterni.

A questa capacità di ascolto sarà necessario affiancare una progettualità sugli strumenti di gestione che accolga le diverse esigenze pur salvaguardando da un lato il principio di equità necessario ad un sistema organizzativo “sano”, dall’altro un identificazione sufficiente a contenere le differenze lesive della mission aziendale.

La sfida, come si può intuire, non è semplice: viste le tendenze organizzative e dei contesti sociali è semplicemente inevitabile. Vincerla sarà appannaggio delle capacità progettuali a cui, come istituzione e ricercatori, cercheremo di dare un contributo.

Le principali resistenze alla delega imprenditoriale

Paolo Preti e Marina Puricelli

Nonostante la convergenza degli autori sul significato di delega imprenditoriale, si riscontra, sulla base di evidenze empiriche, una ancora limitata diffusione del fenomeno nel contesto nazionale delle piccole e medie imprese. In particolare, le informazioni derivanti da circa 300 interviste telefoniche rivolte ad imprenditori italiani di aziende di dimensioni minori, consentono di riscontrare la presenza di resistenze individuali all’avvio del processo di decentramento decisionale. Le interviste strutturate con domande aperte, sono state condotte con imprenditori partecipanti al corso di formazione “Organizzazione delle imprese minori” della SDA Bocconi. Le informazioni raccolte sono state sintetizzate in apposite schede che abbiamo riletto nel tentativo di spiegare l’ancora limitato esercizio della delega. Come si vedrà nel seguito, tali resistenze derivano da una erronea interpretazione a priori delle fasi che costituiscono la delega e per questo si possono dimostrare infondate. Le condizioni ostacolanti l’avvio del processo, che ricorrono nei dati raccolti dal confronto con il campione di imprenditori, possono essere così schematizzate:

  • Vorrei delegare, ma temo di non avere più sotto controllo la mia azienda”. L’imprenditore, confondendo il significato di delega, teme di perdere il controllo. Una migliore conoscenza del processo, con particolare riferimento alle fasi finali, potrebbe eliminare questo timore. E’ pur vero che con la delega si passa da un controllo dei comportamenti a partire da decisioni accentrate, ad un controllo di risultati su obiettivi. Il primo è rassicurante perché consente un intervento immediato allorché il comportamento si allontana dalla prescrizione, ma assorbe tempo ed energie dell’imprenditore. Il secondo, in maniera discontinua, consente interventi di correzione e permette di liberare tempo ed energie.

  • A delegare si perde troppo tempo in spiegazioni: se faccio da solo faccio prima!”. Un’ulteriore resistenza alla delega riguarda la lentezza del processo. Istruire il delegato, valutare le sue competenze e controllare il risultato delle sue azioni, comporta un notevole dispendio di tempo e di energie. Si giunge al paradosso per cui il tempo dedicato al processo di delega supera quello impiegato dall’imprenditore se la decisione rimanesse di sua competenza. A questo proposito ci si può immaginare, su base logica e in presenza di evidenze aneddotiche, che il tempo da dedicare al processo diminuisca al crescere dell’esperienza di delegato. Nel tempo, la progressiva diffusione di informazioni renderà sempre più celere la fase di istruzione. Infine, come ultima replica, bisogna ricordare che l’attività più dispendiosa – in termini di spiegazioni da dare al collaboratore - è il comando, allorché, come già detto, l’imprenditore entra nel dettaglio dell’attività da svolgere definendone tutte le modalità di realizzazione.

  • Vorrei delegare, ma poi che cosa faccio?” L’imprenditore teme di perdere la possibilità di fare cose che lo “divertono” e dunque di avere tempo libero non sapendo più come impegnarlo. Rispondere a problemi pratici, anche di piccola portata, sembra essere in molti casi l’impegno prevalente dell’imprenditore pur a scapito del tempo disponibile per riflessioni e decisioni di maggiore rilevanza come ad esempio quelle strategiche e di pianificazione sul futuro dell’azienda: è proprio a queste ultime invece che dovrebbe dedicare la sua attenzione.

  • “Vorrei delegare, ma non ho gli uomini adatti”. L’imprenditore non crede nelle capacità dei suoi subordinati, non crede nella loro abilità nel risolvere problemi o nel generare alternative valide come risposta alle domande che via via si presentano. In questi casi occorre far riflettere l’imprenditore sul processo di selezione dei suoi collaboratori. Chi ha scelto persone incapaci ad assumere responsabilità? Secondo quale modalità li ha scelti? Ciò detto occorre tenere conto che non tutti i collaboratori vogliono/debbono assumersi responsabilità decisionali: l’avvio di un processo di delega permette anche di misurare il potenziale delle persone. I collaboratori che accettano la sfida e si dimostrano validi nel generare alternative rispetto al problema sono quelli sui quali allora l’impresa può investire in termini di formazione e carriera.

  • Vorrei delegare, ma questo porta a cedere informazioni e a far crescere collaboratori con il rischio di perderli a favore della concorrenza. Il rischio di perdere i migliori collaboratori, e dunque di sottostare al loro potenziale di opportunismo, può esistere anche nel caso in cui l’imprenditore decida di non delegare. Il collaboratore che ambisce a posizioni di responsabilità ed avverte questa mancanza di fiducia nei suoi confronti, potrebbe essere invogliato a trovare occupazione in aziende più orientate alla crescita professionale.

Queste resistenze che l’indagine empirica ha dimostrato essere presenti nella realtà possono essere superate chiarendo il concetto specifico di delega e i vantaggi che la sua corretta applicazione può assicurare allo sviluppo della piccola impresa. Alla base di tali resistenze esistono infatti sia concetti di delega errati che non conoscenza dei limiti che la mancata delega può generare a determinate piccole imprese. E’ qui che le precedenti ricerche teoriche possono fornire un aiuto.




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