Lo spunto per questa riflessione me l’hanno dato Angela e Serena, due giovani e simpatiche colleghe con cui lavoro da tempo.
Hanno iniziato quando dovevano fare lezione in aule un po’ difficili, dove potevano avere qualche insicurezza sui contenuti da trasmettere o sui processi che si sarebbero verificati. Invece di avventurarsi da sole, sviluppavano un intervento in codocenza, entrambe presenti in aula e pronte ad intervenire se una delle due si fosse trovata in difficoltà. Tra l’altro, questa modalità, risulta utile perché mentre una è “attiva” e concentrata su “qui ed ora”, l’altra può permettersi il distacco di chi osserva dall’esterno, capace quindi di evidenziare aspetti più sottili e che all’altra possono sfuggire. In questo modo l’efficacia didattica aumenta sicuramente.
Ma anche in incontri con i clienti, oppure nei momenti di progettazione, in cui bisogna pensare e creare, loro preferiscono lavorare insieme, tanto che orami le chiamo Cip&Ciop, perché dove c’è l’una, quasi sicuramente, trovo l’altra.
Muoversi in due, soprattutto in universi complessi, è decisamente rassicurante e, in questo modo, si affrontano meglio difficoltà crescenti. Lavorare insieme consente di confrontarsi reciprocamente quando ci sono dubbi, avendo una sorta di specchio in cui trovare conferma o, se c’è un contraddittorio, essere sicure che sia sviluppato in modo costruttivo, bonario, senza eccessive minacce.
E’ questo un modo molto femminile di fare le cose, che fa intuire una migliore competenza delle donne nel lavorare sul gruppo in modo più ampio, di saper sviluppare un confronto più aperto e, di conseguenza, di non imporre in modo rude le proprie convinzioni. Modi di essere che fanno sperare possa esistere una leadership femminile diversa da quella tradizionale, più supportiva e cooperativa, anche se le ricerche su questo punto sono ancora molto contraddittorie: alcune tendono a provare l’esistenza e la differenza di un modo di condurre al femminile, altre in maniera quasi paritaria, la negano e vedono invece prevalere la cultura aziendale come elemento che omogeneizza il modo di operare di maschi e femmine.
Quindi questo modo di operare non è errato di per sé e potrebbe contenere delle utili indicazioni per le aziende che di solito progettano il job sharing ovvero la condivisione tra due persone di un’univa posizione organizzativa, solo per ruoli d’ordine o per mansioni operaie. Si potrebbe invece pensare ad una condivisione anche di posizioni manageriali, ovviamente tra due donne che si scelgono tra loro, che hanno una sintonia d’intenti. Questa modalità organizzativa potrebbe lenire una delle maggiori difficoltà per cui le donne si autoescludono dalle posizioni alte dell’organizzazione: sentire troppo forte il peso delle responsabilità e patire una solitudine eccessiva nel prendere decisioni a forte impatto organizzativo. Sottolineo però che si tratta di sharing, di condivisione, non di lavoro raddoppiato, anticipando una giusta obiezione sui costi che potrebbero fare le aziende.
Anche dal punto di vista femminile, nell’assecondare questa attitudine, c’è un però, che potrebbe diventare un pericolo.
Li sottolinea con acume Marina Valcarenghi nel suo libro, “L’insicurezza” edito da Bruno Mondadori, dove tratteggia la “paura della solitudine” come uno degli elementi di blocco alla crescita individuale.
La psicoterapeuta, tra l’altro, riprendendo una citazione di Storr (che ha scritto Solitude, a return to the self, Ballantine Books), mette in evidenza come siano stati proprio loro per anni a sottolineare l’importanza della relazione come elemento di maturità soggettiva. Atteggiamento mentale che spesso ha sanzionato come errato il comportamento, ad esempio, di un bambino che ricercava momenti di solitudine all’interno dell’aula.
Invece questa solitudine è un momento necessario di crescita. Certo affrontarla significa lasciare il porto della sicurezza per affrontare il mare aperto in cui si possono fare incontri non desiderabili, oppure decidere di entrare in una foresta oscura, con i pericoli che può celare.
“Per vivere, o viaggiare, o passare dei periodi da soli, è necessario dunque non avere troppa paura di quanto è imponderabile e imprevedibile, è necessario non avere troppa paura del prossimo e degli eventi, ma è soprattutto necessario coltivare dentro di sé il coraggio di affermare il desiderio e la curiosità”.
Personalmente mi sento di aggiungere che ci sono alcuni aspetti della propria creatività, e quindi realizzazione, che si possono raggiungere esclusivamente in solitudine. Esercitare l’arte della memoria, ad esempio, ripercorrendo la propria vita, oppure scrivere un articolo, un romanzo.
Una vita convulsa e sempre condivisa non lascia questi spazi solitari e, spesso, terapeutici, di riflessione.
Allora il consiglio è di provarci.
Personalmente trovo molto piacevoli i viaggi, anche quelli di lavoro, in cui è possibile lasciare andare i pensieri guardando il paesaggio scorrere da un finestrino di un treno o nella solitudine affollata di un aereo. Condivido la sensazione di Renata Pisu, che in uno dei suoi libri sulla Cina (Sperling e Kupfer) dice: “Nei luoghi di transito, così come nelle camere d’albergo, è come se mi ricomponessi, trovassi una sicurezza che altrove non provo”.
Ognuna deve trovare il suo luogo di transito, in cui sperimentare quel giusto equilibrio di avventura e di sicurezza che consente di addentrarsi nei territori della solitudine.
Per compiere il primo passo però è necessario un po’ di coraggio e di fiducia nelle proprie possibilità. Ma il risultato è molto elevato. Ci si sente orgogliose di sé stesse e quindi aumenta l’ottimismo nelle proprie capacità, ma soprattutto si può trovare la mitica Shangri-la della propria creatività, un territorio che tutti abbiamo, ma che spesso non incontriamo per paura di quello che ci può svelare.
Quindi proviamo a spegnere ogni tanto l’assordante chiacchierare per iniziare in silenzio la scoperta del nucleo più profondo di noi stesse. Credo che il risultato valga la fatica.
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