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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Tempo, organizzazioni e differenze di genere


Introduzione


La necessità di sviluppare una riflessione sul tempo in relazione al genere è sorta durante una ricerca relativa al management al femminile. Nelle interviste con donne che hanno intrapreso o si trovano nel punto di intraprendere un percorso di carriera, appariva evidente una diversa idea del tempo in confronto con le persone di genere maschile (Bombelli, 2000).

Questa diversa sensibilità al tempo da parte delle donne è stata spesso attribuita alla difficoltà della gestione del doppio ruolo. In una dimensione di doppia - presenza è evidente che il tempo non basta mai ed assume un peso maggiore o minore nella scala individuale di attribuzione di significati.


Nella ricerca a cui si fa riferimento appariva invece un diverso valore attribuito al tempo dai diversi punti di vista, maschile e al femminile. Questa diversità si estendeva anche alle donne senza figli e quindi con meno difficoltà nella gestione della doppio ruolo.


Questa considerazione iniziale è stata lo spunto di riflessione per un percorso molto più ampio di analisi del tempo nelle organizzazioni, dei cambiamenti che le organizzazioni stanno attraversando e di come stiano cambiando le idee e le progettualità in relazione al tempo.

A questi aspetti si sono collegate le problematiche e le aspettative delle persone in relazione al tempo e le modifiche degli equilibri nel do ut des organizzativo, in particolare modo nelle differenze tra maschile e femminile.


Il quadro che emerge sviluppa una connessione tra la percezione soggettiva del tempo e i tempi del lavoro, i tempi delle città e dei contesti sociali.

La tesi che si arriva a circoscrivere riguarda la necessità per chi si occupa di progettazione organizzativa di ripensare la progettualità sul tempo.

Il primo scopo di questo lavoro è di invitare a non lasciare implicita la dimensione del

tempo, ma viceversa a considerarla come una delle leve fondamentali della potenzialità riorganizzativa. Bisogna superare una visione che considera il tempo un “a priori” kantiano, sul quale è impossibile agire.


Siamo davvero convinti che ogni task possa essere perseguito con una visione del tempo logico lineare, indifferenziata per ogni segmento organizzativo?

Come vedremo le aziende sono un universo composito di luoghi a tempi dilatati, dove la creatività e l’ascolto possono svilupparsi in modo disomogeneo, articolato, non sequenziale e luoghi dove l’enfasi della velocità può prendere il sopravvento ed essere un fattore vincente.

Se la pressione temporale, dea sovrana dell’organizzazione fordista, spande il suo velo oscuro su tutta l’organizzazione, alcuni task non possono essere raggiunti per mancanza di una pre-condizione di base, il tempo necessario.


Il secondo obiettivo, più di dettaglio, è quello di costruire un frame concettuale che metta in relazione la dimensione macro – quella culturale e simbolica – con quella micro – la dimensione personale – passando attraverso i contesti sociali e organizzativi.

In questo percorso il punto relativo alla dimensione personale evidenzia come vi sia un approccio diverso nei due generi.


Il rifiuto femminile di dilatare ad libitum il tempo di lavoro non è esclusivamente legato all’equilibrio tra la vita professionale e familiare.

Esiste una valorizzazione più profonda che porta ad una progettazione della vita femminile più articolata, con piani temporali diversi e con un legame più forte ai differenti momenti del ciclo di vita.


Possono le organizzazioni accogliere queste diversità? I tempi uniformati ed uniformanti chiedono l’adesione ad un unico modello indifferenziato. Quali progettualità si possono opporre a questo stato di cose?



  1. Le dimensioni del tempo


Introdurre il tema del tempo è un’impresa difficile per la complessità e contemporaneamente per l’evanescenza dell’oggetto.

Ognuno sa cos’è il tempo, ne fa uso, ne è assillato, ma pochi saprebbero definire esattamente che cos’è, se non facendo riferimento ai suoi vari misuratori: gli orologi. In molti lavori sul tempo viene citata una frase di Sant’Agostino che ben esprime questa contraddizione: “Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente , per poi esprimerlo a parole? Eppure quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne certo intendiamo, e intendiamo anche quando udiamo altri parlare. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente”.


Il termine tempo racchiude dietro di sé numerosi significati che si intersecano nel linguaggio comune.

Il primo obiettivo di questo lavoro è di provare a tracciare queste diversità, che non sono solo terminologiche, bensì nascondono diverse dimensioni del tempo.

Il termine dimensione viene utilizzato come qualità che il tempo può assumere. Ciascuna di esse, in realtà, può diventare un punto di vista di ricerca nell’osservazione di una società o di un contesto organizzativo.


Quindi, senza pretesa di esaustività o di completezza, è opportuno sottolineare come il tempo possa essere inteso in diversi modi (figura 1).



La dimensione simbolica e culturale


Il tempo viene appreso dal singolo individuo all’interno di un contesto sociale che ne tramanda la dimensione simbolica da generazioni. Come per altri simboli, ad esempio il linguaggio, l’idea del tempo passa dal gruppo all’individuo in processo che si può definire di individualizzazione (Elias, 1984).


Il processo di apprendimento è contemporaneamente un processo di socializzazione ai valori del gruppo, ai limiti di accettabilità, alle dimensioni di valore connesse all’uso. Ciò significa che l’individuo non solo ne apprende l’utilizzo, ma sa anche implicitamente che cosa è auspicabile e che cosa viene ritenuto offensivo dal gruppo. Ad esempio un ritardo è cosa normale in alcune culture, mentre può costituire una grave mancanza di rispetto in altre.


In questo lungo processo che nell’individuo raccoglie il sapere delle generazioni non vi è distinzione tra il tempo fisico, il tempo sociale e il tempo vissuto. Il tempo si vive, più raramente ci si ferma a discuterne.

Questo processo di costruzione sociale dell’individuo è molto complesso e difficile, come sottolinea Elias, da tradurre in parole. Ogni persona sedimenta nella propria individualità una serie articolata di elementi che vengono appresi semplicemente vivendo, ossia stando accanto a persone adulte che nella comunità vivono.


In questo lungo processo di apprendimento che potremmo definire implicito le persone raccolgono i valori profondi del gruppo sociale. La dimensione del tempo, così come le identità di genere ed le altre numerose articolazioni culturali, vengono prevalentemente trasmessi in modo implicito, non razionalizzato.

Queste modalità di apprendimento e la relativa poca evidenza della dimensione simbolica rendono “gli uomini ancora molto poco consapevoli della natura e del modo di funzionare dei simboli che essi hanno creato e che utilizzano costantemente”

(Elias, 1984 – pag.37)


E’ difficile per ciascuno inserito in una visione e in una pratica del tempo percepire la propria esperienza come relativa. Questa caratteristica viene rilevata per contrasto: osservando una cultura distante da quella in cui si vive è possibile rendersi conto che la propria idea del tempo è storicamente situata, come si evince dai lavori degli antropologi (Geertz, 1987).


Di conseguenza l’orientamento temporale può venire utilizzato come uno degli elementi per decodificare le culture, e costituisce un indicatore importante per comprendere i valori soggiacenti nelle diverse realtà geografiche (Klackhohn, Strodbeck 1961). Per esempio le culture occidentali percepiscono il tempo come una risorsa scarsa (Il tempo è denaro!!!). Gli Americani si concentrano prevalentemente sul presente o l’immediato futuro, tanto che le valutazione di prestazioni in una tipica organizzazione nord americana vengono svolte ogni 6 mesi. Per contrasto i giapponesi hanno un orientamento temporale di più lungo periodo (Robbins, 1992).


Da queste sommarie considerazioni appare chiaro come relativamente al tempo sia in agguato un conflitto potenziale tra le diverse culture del tempo. Come sintetizza un italiano che ha lavorato diversi anni in Marocco, prima di un appuntamento dava sempre, dopo l’ora di incontro, un avvertimento “ Et qu’il ne soit pas un rendez-vous maroquin!” e l’interlocutore comprendeva benissimo a che cosa si riferiva.

Come tutti i conflitti culturali, anche quello sul tempo, può diventare di difficile gestione se uno degli interlocutori carica l’evento di un particolare valore: se il ritardo viene concepito come sintomo di poca attenzione o di scarsa efficienza si tenderà ad entrare in una dinamica di interazione cross culturale poco costruttiva.


Possiamo concludere che sul tempo, come su altri aspetti simbolici differenti nelle diverse culture, si attuano delle “meta -negoziazioni” a volte tutte implicite.


Come tutte le dimensioni culturali, anche la concezione del tempo è dinamica e quindi soggetta ad un cambiamento continuo. Questa dinamicità appare evidente nel processo lungo e doloroso che ha trasformato il lavoro agricolo orientato alle stagioni, ciclico, legato a scelte soggettive di interazioni con l’ambiente, quali il momento della semina e del raccolto, ad un tempo lineare, industriale, collettivo, eteroimposto.

Oggi, con il passaggio al post-fordismo si assiste ad una nuova articolazione e composizione dei tempi, sicuramente più complessa e articolata, e per questo ancora poco visibile e interpretabile in modo unitario.


La dimensione fisica


“Come sovente accade nel nostro universo socio simbolico, dei simboli ad un elevato livello di sintesi vengono reificati nel linguaggio quotidiano e acquistano una vita propria” (Elias, 1984, pag. 86)

Il tempo in quanto tale non esiste: esiste l’invecchiamento di ciascun soggetto, esiste la storia e la narrazione. Eppure oggi la dimensione di misurazione fisica del tempo ha assunto una valenza parossistica. Una persona che lavora ostenta un orologio da polso, un cellulare, un P.C., una agenda elettronica, e tutti questi oggetti contengono, in prima evidenza, l’ora e molti di essi hanno strumenti di pianificazione del tempo.

Questo continuo riferirsi alla dimensione fisica, esterna, oggettiva del tempo tende ad appiattire la percezione soggettiva e gli andirivieni temporali che sono necessari al pensiero e alla creatività.


Il tempo non esiste di per sé, ma è una attribuzione che consente di definire un fenomeno e di accertarne la collocazione storica. La sua percezione non è immediatamente evidente come per le altre dimensioni fisiche e può dar luogo a sconcerti, come nel caso di voli tra diversi fusi orari, in cui si può arrivare paradossalmente prima della partenza (Watzlawich, 1976).


Il tempo, insieme allo spazio con cui costituisce una relazione inscindibile, rappresenta il contenitore entro cui avvengono le azioni

Una rivoluzione relativamente alla nozione di tempo è avvenuta con la teoria di Einstein in cui “fu abbandonata l’idea secondo la quale il sistema di coordinate spazio temporali ha un significato obiettivo come entità fisica indipendente. Al posto di questa idea, la teoria della relatività suggerisce che le coordinate spazio e tempo sono soltanto elementi di un linguaggio che viene usato da un osservatore per descrivere il suo ambiente” (Sachs in Capra, 1982 pag. 192)


Inoltre, mentre le dimensioni dello spazio, da quelle originarie euclidee si sono moltiplicate, la dimensione del tempo è rimasta una soltanto. Infine “la Scienza non ha ancora capito il motivo del fluire sempre in un solo verso di questa unica dimensione temporale”. E molte altre cose la scienza non riesce (ancora?) a spiegare, perché nel percorso dall’estremamente piccolo all’enormemente grande, dal picosecondo ai miliardi di anni che ci separano dal Big Bang l’uomo deve costruire il senso di esistere (Zichichi, 2000). In conseguenza le diverse dimensioni del tempo convergono, come vedremo, sulla costruzione dell’identità individuale.


La dimensione sociale


Tenere conto della dimensione sociale del tempo significa riferirsi ad un universo di convivenza che richiede delle sincronizzazioni.

Gli orari dei luoghi di lavoro, gli orari delle scuole, gli orari degli innumerevoli servizi a cui ciascuna famiglia si deve rivolgere, dalla banca al comune, dai servizi sanitari alla distribuzione: il reticolo si infittisce fino a diventare una vera ragnatela che circonda il tempo individuale fino a soffocarlo completamente.

Il tema è tanto sentito che il legislatore ha tentato di strutturare un nodo di rete prevalente, una sorta di authority, purtroppo con pochi poteri, nella persona del Sindaco, incaricato dalla legge 142/1990 di redigere il Piano Regolatore degli Orari.

L’obiettivo è contemporaneamente di un maggiore coordinamento degli orari e di una desincronizzazione (Gasparini, 2000). L’apparente contraddizione riguarda l’esigenza di tenere conto dei legami necessari tra le organizzazione adiacenti e collegate, ad esempio la tendenza alla liberazione del sabato come giorno di lezione da parte delle organizzazioni scolastiche in sintonia con la maggior parte di quelle lavorative, e una diverse esigenza di evitate affollamenti poco efficienti in alcuni orari particolari, si pensi ai negozi nei giorni di sabato e alla ridicola apertura al pubblico delle banche in orario sincronizzato con quello del lavoro.


Oltre che ad una cultura degli orari che oggi è improntata alla rigidità e alla eccessiva sincronizzazione, il tema della gestione soggettiva degli orari delle città rimanda all’efficienza complessiva del territorio: i tempi di trasporto pubblico, la viabilità, le attese della burocrazia.


Il fenomeno delle interrelazioni personali, organizzative e sociali diventa di natura sempre più complessa, con un progressivo allungamento delle catene di interdipendenza.

Probabilmente dei contributi di semplificazione si potranno avere sia in relazione ad una maggiore efficienza delle singole parti del sistema, sia nello sviluppo di interazioni tecnologiche, come nell’utilizzo di Internet per accedere ai servizi o nello sviluppo dell’e –commerce. Nonostante questo è necessaria una ampia progettualità sociale per favorire nuovi incontri di domanda e offerta e nuove modalità di sincronizzazione.


La parte del lavoro famigliare relativa alle interazioni con i servizi di varia natura, come è noto, ricade prevalentemente sulle spalle delle donne, stranamente anche di quelle che lavorano, che sono maggiormente penalizzate dalle inefficienze descritte.


La dimensione individuale


Le persone sono il tempo che vivono. Non esiste probabilmente nessun altro elemento così fondante l’identità. La coscienza del ciclo passato – presente – futuro rappresenta la vita stessa, di conseguenza il senso dell’Essere è la temporalità (Heidegger, 1970). Il differenziarsi dell’essere umano dai suoi primogenitori avviene proprio con l’acquisizione della memoria a lungo termine che, a differenza di quella a breve, consente l’instaurarsi di cicli di apprendimento.

Da questo deriva che una delle prime esigenze umane è la regolarità, ossia avere la rassicurazione che il tempo continua, così come la vita. Dal terrore dei nostri primogenitori che si chiedevano se il sole sarebbe sorto ancora dopo il buio agghiacciante della notte, all’angoscia del neonato che teme la scomparsa della fonte di cibo e di tepore, l’uomo insegue la regolarità come elemento di sicurezza e quindi di identità. La regolarità rimanda all’importanza del tempo ciclico, del continuo ritorno, importanza che è comunque cambiata nel passaggio dal tempo sociale regolato dalle stagioni nei contesto agricoli, al tempo lineare che si è imposto dopo la rivoluzione industriale.


Von Foerester mette in luce come “ per ogni organismo vivente capace di percezione e cognizione, ai fini della sopravvivenza è meglio eliminare ogni aspetto temporale di una sequenza di eventi; o, in altre parole, nella catena dei processi cognitivi il tempo è abbandonato il prima possibile”. (1987, pag.71) Questo abbandono avrebbe due giustificazioni: la prima è che la memoria senza tempo è infinitamente più economica, la seconda che il tempo assoluto non trasmette alcuna informazione.

Possiamo evidenziare tre aspetti che caratterizzano l’esperienza personale del tempo: la prospettiva temporale, la successione e la durata (Block, 1990).

La prima è relativa alle modalità con cui ciascun soggetto si orienta nella sequenza passato, presente e futuro. Nel bilanciamento del presente sono in agguato distorsioni potenziali che influenzano le capacità delle persone: un ancoraggio troppo forte al passato può condurre all’incapacità di vivere pienamente il presente e a guardare con fiducia al futuro, così come la tensione troppo forte al futuro impedisce di vivere serenamente il momento presente. Molte discipline quali lo yoga, lo zen, solo per fare degli esempi, si propongono di aiutare le persone a trovare un equilibrio, ma soprattutto la capacità esistenziale, che viene intesa come benessere, di vivere pienamente il presente.


Il secondo aspetto, la successione rimanda alla competenza soggettiva di orientamento di fasi e sequenze, mentre la terza, la durata, è relativa alla percezione soggettiva di lentezza o velocità.


Nell’esperienza personale vi sono stesse quantità di tempo, un’ora ad esempio, che scorrono rapidamente oppure che acquistano una lentezza insopportabile.

Il tempo speso in una attività divertente e coinvolgente spesso si comprime nella percezione soggettiva, mentre la durata di una noiosa lezione, tenuta a voce bassa e monotona, può estendersi irragionevolmente.


Il tempo soggettivo rimanda quindi ad una "storia interna della vita", marcata da un tempo diverso e caratterizzata da "tensioni di durata" legate ai significati che ciascuno attribuisce agli avvenimenti che si vivono (Biswanger, 1971).

Nelle forme patologiche più o meno gravi si fa spesso soggettivamente riferimento ad una discontinuità, ad una disarticolazione del tempo interiore vissuto (Borgna, 1997).


Vi è un altro elemento temporale che più che essere relativo all’esperienza soggettiva del tempo, la modifica sostanzialmente. E’ l’influenza del momento del ciclo di vita del soggetto. Come dicono i francesi: “Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait!”

Non solo, ma è riscontrabile nell’esperienza personale di ciascuno come l’elemento che precedentemente è stato definito durata sia variabile nei diversi cicli di vita. Precisamente la percezione soggettiva della velocità con cui trascorre il tempo di vita, aumenta all’aumentare dell’età: è esperienza comune che l’infanzia sia percepita come lenta, mentre nel trascorrere degli anni il tempo acquista una velocità maggiore.


Un ultimo elemento che si vuole sottolineare perché fortemente inerente il mondo organizzativo, è l’idea soggettiva di velocità/lentezza nell’operare. Per una persona lo svolgere dei compiti con una certa velocità, supponiamo più alta della media, può essere una cosa normale. Tale velocità può essere insostenibile per un’altra persona.

Vi è probabilmente una connessione tra la rapidità dell’agire e la prospettiva temporale: con ogni probabilità tanto più è pregnante il riferimento al futuro, tanto maggiore sarà la velocità applicata all’agire.

La dimensione individuale è, come sottolineato precedentemente, anche connessa a quella più ampia culturale e simbolica, di cui si nutre e a cui rilascia le proprie idee (fig.2).



  1. Il tempo delle organizzazioni


Tempo e progettazione organizzativa


Il rapporto tra il tempo e le organizzazioni lavorative è, in una prima fase, assoluto.

L’idealtipo della fabbrica fordista è un meccanismo sincronico perfetto.

Inoltre in questo tipo di organizzazione, che di fatto è la progenitrice di ogni altra, non si acquista più il prodotto del lavoro, ma il tempo delle persone.

E’ importante sottolineare e tenere presente nella riflessione questo aspetto: le aziende acquistano il tempo delle persone che viene assolutamente controllato in modo tecnologicamente più o meno avanzato, dal cartellino al badge, con l’idea sottesa che in questo tempo dedicato, in uno spazio prefissato, le persone produrranno.

Se questa derivazione logica è corretta in una organizzazione del lavoro fordista dove presenza equivale a lavoro, in ogni altro tipo di organizzazione, l’equivalenza può diventare opinabile.


L’inserimento della variabile tempo nella progettazione organizzativa, come sottolinea Luciano Pero (1977), non è così scontata. Dopo la stagione del taylorismo il tempo ritorna come attenzione alla riduzione, nella cosiddetta time based competition.

E’ bene notare che “ciò che si definisce compressione del tempo è in verità il suo esatto opposto, ovvero la compressione, all’interno della medesima unità di tempo, di un numero crescente di processi” (Marzocchi, 1999).


Oggi non sembra nella prassi un forte fattore di innovazione: le ipotesi di “rottura dei codici spazio temporali” (Pero, 1977) con nuove strategie di abbinamento non appaiono centrali nelle nuove forme organizzative.

Mentre vi è una ampia produzione di modelli e forme organizzative innovative, a N, effimere, a sfera e così via, pochissimo si progetta relativamente della quarta dimensione: il tempo.

Può essere che questa “rimozione” organizzativa sia analoga a quella effettuata dalle persone, come sottolineato precedentemente riguardo alle affermazioni di Von Foerester.


Appare evidente, viceversa, che nella organizzazione post fordista cambiano alcuni aspetti fondanti l’equilibrio organizzativo. Uno di questi riguarda l’assunto presenza = produzione. Ciò era sicuramente valido in una organizzazione del lavoro tayloristica dove la volontà individuale di adesione ad lavoro era regolamentata dall’esterno in particolare dalle macchine. Ma cosa accade in una organizzazione knowledge intensive, dove il lavoro deve essere assunto, per le sue caratteristiche intrinseche, in modo imprenditoriale dai soggetti? Quali sono i contenitori temporali più adatti a queste organizzazioni?

Le nuove forme organizzative descritte necessitano di nuovi strumenti di integrazione che superino quelli tradizionali di natura accentrata (gerarchia, procedure, etc) per spostarsi verso forme flessibili e utilizzabili in modo decentrato. Cambiando gli strumenti di integrazione più adeguati alle nuove forme organizzative, non si può pensare di lasciare inalterate le dimensioni spaziali e temporali.



Il tempo come mood organizzativo


E’ relativamente difficile approcciare il tempo delle organizzazioni in modo disgiunto dal tempo soggettivo, delle persone che vi operano. Tuttavia è quello che cercheremo di fare precisando che la distinzione si riferisce al diverso “punto di vista” delle organizzazioni e delle persone, in un percorso di riflessione che vorrebbe evidentemente condurre ad una integrazione dei due bisogni in modo vantaggioso per entrambi i soggetti.


Il tempo nelle organizzazioni si presenta in una miriade di sfaccettature che è difficile ordinare in modo logico.

Si procederà quindi ad una riflessione sul tempo organizzativo mettendo in luce quelli che sono, a parere di chi scrive, i “nodi critici” della gestione del tempo.


All’interno dell’organizzazione ritorna come idea e si solidifica come prassi una “cultura del tempo” che rimanda a ciò che il gruppo considera accettabile o meno relativamente ai comportamenti di utilizzo del tempo.

E’ evidente che questa cultura del tempo è collegata e derivata dalla più ampia cultura del gruppo geografico di riferimento, ma nonostante questo livello superiore, le singole organizzazione, divengono delle enclaves culturali originali, in cui si declinano della particolarità.


Entro quanto tempo deve essere evasa una richiesta di un cliente esterno? E di un cliente interno? Cosa si intende quando si dice “Questa attività deve essere eseguita subito!” ?

Qualsiasi consulente o persona che abbia cambiato molti luoghi di lavoro sa che i comportamenti organizzativi possono essere, su questo fronte, diametralmente opposti.

Raccontava un dirigente ad un corso di formazione: “Nella nostra azienda abbiamo adottato la metafora del cane. Un nostro anno di lavoro ne deve valere sette della concorrenza!”

Questa persona parlava tanto velocemente che spesso gli interlocutori dovevano chiedere ripetizioni o rallentamenti.


All’estremo opposto possiamo trovare le organizzazioni non sottoposte alla sanzione del mercato e della concorrenza, quelle aziende “autoreferenti” che possono determinare i propri tempi: luoghi in cui si respira un clima di rilassatezza e di tranquillità per il cliente/utente, a volte esasperante.


Ancora l’idea e la gestione del tempo sono diverse nelle organizzazioni sociali e politiche dove si sviluppa una strana convivenza di “tempo perso, inconcludente rispetto ai fini” e contemporaneamente, sul versante soggettivo, una grande “intensità di impegno (…), uno stato di coinvolgimento che si presenta come un composto indecifrabile di coazione e di libera scelta” (Manghi, 1995).


La cultura del tempo, nel senso sopra descritto, si traduce in una sorta di mood organizzativo che si coglie, si respira, si percepisce.

L’idea di mood, come permeazione culturale, vuole porre in evidenza come la velocità o la lentezza possono divenire un modo di essere organizzativo, condiviso del gruppo.

Le diverse culture organizzative del tempo si trasferiscono e sedimentano in simbologie coerenti. Anche nel microcosmo aziendale, come per più vasti gruppi sociali, il tempo subisce una mediazione simbolica che può essere diversa da contesto a contesto.


In primo luogo la cultura diffusa, quella che abbiamo definito mood, segna dei confini di comportamento diffusi e accettati in relazione al tempo.

Il rimanere in azienda fino a tardi può diventare talmente ovvio che incontrando una persona che esce alle 18 si chiede “Hai preso mezza giornata di ferie?” Oppure in modo speculare accade di valorizzare positivamente una persona per il proprio risultato premiandola con soldi o passaggi di carriera e contemporaneamente sanzionarla per l “orario da segretaria”.


Questi esempi, descritti in una ricerca (Bombelli, 2000) dimostrano come gli attori in questione hanno superato dei “limiti di accettabilità” implicitamente descritti.

Il primo limite riguarda la durata reale della giornata lavorativa. In questi ultimi anni, nonostante le previsioni di qualificati osservatori, la giornata reale si è allungata, in modo proporzionale al livello gerarchico. E’ questo un fenomeno molto situato nella cultura nazionale italiana che rientra nelle “ovvietà” organizzative. E’ scontato per il gruppo che carriera significhi aumento della quantità di tempo dedicata all’azienda.


La seconda dimensione simbolica interessate riguarda la valutazione positiva, diffusa nella gerarchia e che ricade sul gruppo, della disponibilità che le persone dimostrano lavorando fino a tarda ora. Tale valutazione positiva viene sommata a quella di prestazione e di risultato. La seconda senza la prima non è, generalmente, ritenuta possibile.

Questi limiti di accettabilità diventano costume e si traducono in comportamenti distintivi in relazione al tempo che sono diversi nelle diverse organizzazioni.

Nell’organizzazione descritta nel lavoro di Manghi precedentemente citato, convivono quello che viene definito nel titolo “il tempo perso” e una sensazione diffusa tra gli operatori di dedizione temporale estesa, simbolo di una militanza indefessa e dedicata.



Tempo e task


L’organizzazione è un insieme composto, articolato e complesso di diversi task.

E’ proprio dell’aspirazione all’organizzare lo scomporre e il ricomporre obiettivi di natura complessa in task più semplici e, conseguentemente, cercare di ritrovare una sintesi virtuosa. Le diverse caselle dell’organigramma contengono però diversità che spesso sono diametrali.

Discipline diverse, mansioni diverse, portano con sé, in filigrana, necessità temporali diverse. Non si vuole qui alludere alla soggettività, all’idea del tempo dei singoli, su cui torneremo successivamente, ma proprio alle necessità organizzative relative alla risorsa tempo.

Potremmo sintetizzare i due estremi di queste necessità contrapponendo il tempo della logica con il tempo dell’insight.

Queste due modalità cognitive, intese come estremi di un continuum, sono sovrane in contesti organizzativi comportanti task differenti.

Vi sono ambiti dove è necessaria creatività e innovazione, che non sono esclusivamente i luoghi organizzativi più ovvi, quali team di creazione di una campagna pubblicitaria, piuttosto che gruppi di ricerca di nuove soluzioni.

La creatività nei contesti attuali può essere necessaria in numerosi ambiti tradizionalmente ritenuti logico – lineari: trovare soluzioni originali in ambito tecnico, ipotizzare miglioramenti e così via.

Ciò che si vuole sottolineare con queste osservazioni sono le non coerenze potenziali che sempre più si evidenziano nelle organizzazioni tra il task richiesto e il tempo assegnato.


Vi sono due fattori che contribuiscono al mito della velocità, di cui la metafora del cane precedentemente citata, è l’apoteosi. Il primo fattore è quello della velocità connessa alla modernità e alla globalizzazione.

Just in time, time to market sono espressioni ricorrenti che evidenziano l’ansia, comprensibile e condivisibile, di “non perdere il treno”, di bruciare la concorrenza, di essere rapidi e efficienti.


L’importanza della velocità viene alimentata dalla potenza tecnologica che consente la trasmissione in tempo reale, che connette i singoli attore in uno scenario impensabile solo pochi anni fa.


L’altro fattore è quello del contenimento dei costi relativi al personale che, nonostante la fine di periodi economici recessivi, continua ad essere un valore high score per le Direzioni del Personale.

Questi due aspetti congiurano entrambi contro il tempo necessario alla creatività, all’innovazione, restringendo a norma ciò che non può essere che eccezione.


Come ciascuno sperimenta le migliori idee nascono nei luoghi e nei tempi più impensati, dimostrando l’irriducibilità spazio temporale della creazione.

Nelle composizione organizzativa dei tempi della logica con i tempi dell’insight va tenuto conto delle tendenze che, nel nostro paese, evidenziano una transizione cospicua, come già sottolineato, da organizzazioni labour intensive ad organizzazioni knowledge intensive con un conseguente passaggio da composizioni dei tempi semplici a composizioni complesse.


E’ necessario impostare una riflessione approfondita sui cambiamenti - di mercati, di contesti, di strategie e di task – e le logiche del tempo soggiacenti alla tradizionale progettazione organizzativa.

La tesi che si vuole sostenere è che le organizzazioni possono vivere una schizofrenia interna, una sorta di “doppio legame” insolubile, tra la necessaria copresenza di esigenze di velocità e di compressione dei tempi da un lato, e di approfondimento cognitivo, e quindi di lentezza, e spazio di approfondimento dall’altro.



Il tempo dell’ascolto e il tempo della parola


In modo analogo può aprirsi nelle organizzazioni un’altra contraddizione nella composizione dei tempi.

Nelle organizzazioni complesse, plurispecialistiche, dai confini labili, diventano sempre più frequenti ed essenziali gli scambi di comunicazione personale.


Nelle interazioni soggettive vi sono tempi considerevolmente diversi nelle modalità di gestione dei contenuti e delle relazioni, e tempi diversi di ascolto e di parola (Vaccani).

Per meglio chiarire questo aspetto se consideriamo due persone che comunicano vi è una distanza tra il tempo necessario a parlare, a descrivere e articolare un concetto, ad impartire un ordine, a quello che invece serve per comprendere ciò che l’interlocutore dice. Tale distanza è tanto maggiore quanto è distante il bagaglio cognitivo dei soggetti ed ancor più ampia quanto diverge la loro conoscenza implicita (Nonaka, 1994). Quindi coloro che parlano senza tenere conto del tempo di ascolto necessario all’interlocutore, rischiano di fallire l’obiettivo comunicativo. In aggiunta l’operazione di ascolto è complessa, richiede attenzione e dedizione, in altre parole, richiede tempo.


Un’ulteriore sfaccettatura di possibile distonia temporale nelle interazioni comunicative, riguarda i tempi necessari a trasmettere contenuti, seppur con il problema del gap ascolto/parola precedentemente evidenziato, e i tempi delle “manutenzioni relazionali”


Come è noto i due livelli presenti in ogni comunicazione del contenuto e della relazione si integrano e supportano a vicenda (Watzlawick e al, 1971).

In organizzazioni semplici, dove l’integrazione è prevalentemente proceduralizzata e tecnologica, la dimensione delle relazioni, positive o negative, tra i soggetti ha una influenza relativa sulla quantità/qualità dei risultati organizzativi.


Viceversa in organizzazioni complessamente interrelate, la qualità delle relazioni e la capacità conseguente di gestire i conflitti interpersonali diventa esiziale.

I tempi che abbiamo definito di “manutenzione relazione” e le capacità soggettive necessarie, diventano molto importanti e sempre più lo saranno nelle organizzazioni che si delineano nel futuro. Queste sono sempre più relazionali e devono ascoltare di più. Devono capire attentamente i bisogni del mercato, dei clienti esterni ed interni per cogliere peculiarità di prodotti e servizi sempre più individualizzati. E’ evidente che la tempestività di una risposta organizzativa non significa nulla se non si è diagnosticato correttamente il bisogno.

Questa rischia di diventare un'ulteriore aporia organizzativa: da un lato essere pressati sui tempi, avere sempre l’acceleratore schiacciato e contemporaneamente auspicare il tempo necessario all’ascolto e alla corroborazione relazionale.





  1. Il tempo per le persone


Come si è sottolineato precedentemente è impossibile distinguere il tempo organizzativo dalle modalità con cui le persone vivono il tempo e dai sentimenti che ad esso si accompagnano.


In primo luogo, nella articolazione soggettiva della vita, il tempo di lavoro retribuito ha un influsso strutturante sugli altri usi del tempo. E’ intorno al tempo di lavoro e di conseguenza ad esso che si organizza il tempo domestico e l’eventuale tempo libero (Chiesi, 1992). Questo fa comprendere come il lavoro porti con sé questa centralità anche nella costruzione dell’identità personale. Se le persone sono il tempo che vivono, maggiore è il tempo dedicato al lavoro, ad un lavoro coinvolgente ed importante, e più elevato diviene il radicamento di identità nel lavoro.


Inoltre il mood organizzativo viene respirato dalle persone che trovano con esso maggiore o minore sintonia. Esso ha verso le persone due ricadute di caratteristiche diverse. La prima ricaduta è relativa alla dimensione del carico di lavoro individuale nelle unità di tempo, mentre la seconda alla velocità richiesta connessa al task. Queste due dimensione possono, ovviamente sommarsi, spesso con effetti devastanti sull’equilibrio della persona.


La sensazione dell’ ”acqua alla gola” può derivare da un’organizzazione che, come sottolineato precedentemente, poco si cura dei carichi di lavoro effettivi e scarica sulle persone i picchi e le non sincronie, oppure dall’effettiva necessità di essere veloci, di adeguarsi a scadenza fissate dall’esterno e quindi inevitabili.


Un altro aspetto affrontato nella connessione organizzativa tra tempo e task, riguarda il disagio soggettivo provocato dalla non possibilità di utilizzare il tempo lungo e diacronico della creatività, di essere irregimentati quando invece vi sarebbe necessità di una articolazione soggettiva e personalizzata del tempo.


Provando a dare uno sguardo d’insieme si può ipotizzare un cambiamento generalizzato nella percezione del tempo da parte delle persone. Dopo una stagione in cui sembrava evidente una deriva di riduzione dell’orario di lavoro e di una evoluzione qualitativa nell’utilizzo del tempo (Chiesi, 1992) oggi l’impressione che si ricava, peraltro non suffragata da ricerche quantitative sui bilanci del tempo, è che il mood organizzativo sia sempre più ancorato ad una percezione di tempo scarso e veloce, quindi ad un aumento dello stress. La mancanza di tempo è sempre più invocata come un fattore di ansia. Addirittura i tempi di lavoro e non lavoro nel terziario avanzato e nella new economy sfumano fino a sovrapporsi completamente a favore del primo. Sui quotidiani appaiono articoli sulle aziende della Silicon Valley in cui ci si droga per stare svegli più a lungo, oppure sulle aziende che hanno previsto brandine in ufficio per coloro che rimangono anche la notte (La Repubblica settembre – ottobre 2000).


In un interessante lavoro Hochschild (1997) osserva questo fenomeno negli Stati Uniti. E’ una sorta di inversione di tendenza tra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia, con un evidente vantaggio del primo. La tesi di questa ricercatrice va oltre l’analisi del tempo: il luogo di lavoro viene descritto come maggiormente gratificate e quindi fondante l’identità personale, rispetto alla casa.


Senza arrivare a queste drastiche conclusioni, dal punto di vista dell’utilizzo del tempo, anche in Italia sembra in corso un allargamento progressivo del tempo di lavoro, con una invasione della sfera privata, anche in virtù delle nuove tecnologie a disposizione, dal telefono cellulare all’accesso remoto attraverso computer.



Tempo, ciclo di vita, maschile femminile


Nello scorrere del tempo vi è una connessione tra il ciclo di vita personale e quello della carriera organizzativa che in un reciproco influenzamento modificano speranze ed attese dei soggetti (Depolo, Sarchielli, 1991).

Nella carriera è stata notata una potenziale “crisi di mezza età” che deriva da un diverso modo di considerare il tempo. “La vita viene riconsiderata in base al tempo che ci resta da vivere piuttosto che come tempo trascorso dalla nascita” (Neugarten cit. da Kets De Vries, Miller, 1992).

In questi lavori non viene presa in considerazione la specificità di genere che invece può costituire una interessante ottica di riflessione.


Nell’excursus della vita femminile vi sono momenti significativi diversi rispetto a quella maschile. Il primo è, per le donne che ne fanno esperienza, l’esperienza della maternità. Altrove l’abbiamo definita un sovvertimento ontologico, che porta con sé oltre alle tradizionali difficoltà di conciliazione, un mutamento della scala di valori interiore.

Inoltre la prima maternità avviene sempre più tardi e spesso coincide nel ciclo di carriera con il massimo delle opportunità di sviluppo offerte, provocando una difficoltà iniziale di disponibilità verso l’azienda da parte delle giovani donne che spesso segna un gap insormontabile.


Un secondo aspetto che può diventare molto significativo riguarda il fatto che molte donne, nell’età identificata precedentemente come a crisi potenziale, devono gestire direttamente la malattia e accompagnare la morte dei genitori anziani.


In un interessante lavoro Marina Piazza (1999) mette in evidenza come la generazione di donne attuale si trovi a vivere esperienze molto diverse da quelle precedenti. Innanzitutto l’allungamento della vita, purtroppo non sempre autosufficiente, accompagnata da una scarsità endemica dei servizi destinati agli anziani, porta ad un maggiore e psicologicamente oneroso carico di lavoro di cura, inteso anche come di compartecipazione affettiva per le donne oggi di mezza età. A questo si aggiunge un diverso rapporto dei figli con la famiglia di origine che prolunga in modo indefinito la permanenza all’interno del nucleo familiare.


Inoltre la mezza età, i cinquant’anni, di questa generazione soprattutto di donne sono sostanzialmente diversi da quelli precedenti per l’attesa di vita, sia quantitativa, ma soprattutto qualitativa che le persone hanno ancora davanti.


Queste riflessioni non vogliono ancora ridondare le ben note ed esplorate difficoltà di conciliazione della vita lavorativa con quella familiare, quanto mettere in evidenza delle prospettive qualitative che modificano tra i generi il rapporto con il tempo e con le scelte prioritarie della vita.


L’esperienza della maternità, in particolare dell’attesa, porta con sé una visione assolutamente peculiare del tempo. E’ esperienza di tempo biologico, naturale contro quello veloce ed artefatto della tecnologia; è esperienza di abbandono e di espropriazione contro la logica di controllo e di programmazione insita nel tempo organizzativo. Il momento del parto è deciso dal corpo non dalla mente: spesso sono le strutture ospedaliere che per loro esigenze espropriano, con cesarei e parti indotti, questo momento alla donna per ricondurlo all’interno del mondo dell’organizzazione.


Le donne che mettono al mondo sono anche spesso al capezzale di chi la vita la perde. Anche questa è una esperienza potente nella ristrutturazione dell’identità personale e di conseguenza di quella lavorativa. Da un lato esperienza di tempo eterodiretto, non programmabile, ma soprattutto esperienza della fine del tempo. Assistere alla morte significa fare i conti con la propria morte, con la propria fine.


Ancora ritorna una diversa idea del tempo nel lavoro di cura, nella valorizzazione delle relazione. I bambini hanno un’idea molto diversa del tempo. Più sono piccoli e più sono ignari del contesto affondati come sono nelle loro esperienze. La lunghissima osservazione del filo d’erba durante una passeggiata, l’esplorazione rigorosa di un gioco, le prove di abilità – infilarsi una scarpa – continuamente ripetute, si scontrano con la programmazione familiare dei tempi (Bettelheim,1989).


Così come sono imprevedibili i tempi delle coccole, dei compiti difficili o del sostegno. Saltare dal tempo mamma al tempo azienda è spesso una performance da acrobata. Non tutte ci riescono. Chi si fissa su un unico tempo rimane sfasata nell’altro: una mamma di corsa, poco attenta ai bisogni del tempo-ascolto del figlio, oppure una lavoratrice attonita. Moltissime lo sanno fare sviluppando quella capacità multitasking spesso rilevata dalle organizzazioni nelle competenze al femminile.


La contrapposizione delle qualità dei tempi domestici e lavorativi introduce una più ampia diversità tra i due universi e le asimmetrie che li contraddistinguono che non è possibile in questo contesto affrontare a fondo.

E’ interessante però notare che l’allocazione dei tempi, la dimensione culturale del genere, nascono e si sviluppano sul rapporto tra l’universo familiare e quello lavorativo, universi presieduti da logiche opposte, non riconducibili economicamente una all’altra (Marazzi, 1994 – Sen, 1992). In sintesi si potrebbe dire che mentre il valore economico è il rapporto di scambio nell’economia del consumo, il tempo è il valore di scambio nell’economia dei sentimenti. E’ possibile che una riflessione più ampia relativamente alla conciliazione dei tempi si possa sviluppare solo con una più approfondita ricerca dei nessi di collegamento e regolamentazione di questi due universi.


Interessante, a questo proposito, il fatto che siano state le donne a elaborare e poi costituire le “Banche del tempo”. Il nesso tra l’economia dei sentimenti e quella classica si traduce in un termine, la “banca”, completamente ancorato ad una visione economico/quantitativa. Dietro questo termine le esigenze di creazione delle Banche del tempo nascono viceversa dall’altro ruolo da ricoprire, quello familiare. Il tempo viene scambiato per sopravvivere nei complicati universi delle sincronizzazioni sociali oppure per concedersi un po’ di tempo per sé.




  1. Progettare il tempo


Lo scenario in cui le organizzazioni si collocano segnala un irreversibile processo di transizione da una economia industriale ad una di servizi con una serie di cambiamenti di contesto tecnologico che a loro volta influenzano profondamente le modalità di configurazioni organizzative.


La prima conclusione relativa che possiamo trarre riguarda il fatto che il tempo non può ritenersi a latere, una conseguenza, o peggio ancora un “di cui” della più ampia progettazione. Esso devo rientrare, insieme allo spazio, a pieno titolo nelle variabili da considerare in una accezione più ampia che non sia quella esclusivamente degli orari.


Per progettare il tempo bisogna innanzitutto conoscere due aspetti.

Il primo riguarda la tipologia di organizzazione in cui si vive, le dimensioni strategiche e le risorse per affrontare le sfide future. Tra queste risorse bisogna pensare al tempo.

Si tratta di una diagnosi di fabbisogno temporale per la cui comprensione è necessario interrogarsi sulla natura dei diversi task, sugli andamenti degli output (picchi di intensità) e sulle necessità relazionali e di ascolto. L’antica dimensione quantitativa dei carichi di lavoro deve diventare una capacità qualitativa di natura diagnostico – progettuale sulla allocazione dei tempi.


Il secondo aspetto di conoscenza riguarda la cultura temporale in cui ogni organizzazione vive, analizzare il proprio mood, e da questa consapevolezza partire per sviluppare una progettualità. Come abbiamo osservato spesso queste modalità sono implicite e, in organizzazioni poco permeabili, diventano modalità assolute, indiscutibili.

La conoscenza della propria cultura del tempo, come di altri aspetti di natura culturale, è un passo prioritario indispensabile per le organizzazioni sempre più destrutturate nel futuro.


Ancora l’organizzazione deve compiere una scelta relativa al quanto ascoltare i fabbisogni temporali delle persone. In una società che si diversifica per comportamenti e valori si tratta di decidere se l’offerta del tempo lavoro che una azienda fa ai proprio collaboratori è univoca o differenziata.


Il tempo non può essere valutato solo in funzione delle esigenze aziendali. La valorizzazione delle persone, delle diversità individuali così come dei talenti, comporta la legittimità di diversi modi di intendere ed utilizzare il tempo. In un’epoca in cui le persone diventano una delle risorse fondamentali dell’impresa è importante che acquisiscano cittadinanza e legittimazione plurime flessibilità spazio temporali nel rapporto che lega le persone all’organizzazione. E’ certo che questo può comportare una maggiore fatica nel trovare le sincronie necessarie, una maggiore creatività negli strumenti di integrazione, ma un processo in tale senso appare inevitabile.


E’ interessante rilevare che vi sono numerose e articolate ricerche sul tempo in relazione al consumo (Mazzocchi, 1999) mentre poco o nulla sono studiati i clienti interni organizzativi, le persone che la nuove tendenze vorrebbero teoricamente così importanti.

I primi clienti potenziali di queste attenzioni sono le donne, che come abbiamo sottolineato altrove, spesso mentono all’organizzazione per ritagliarsi spazi legati al lavoro di cura o tempi per sé.


In questo lavoro di bilanciamento tra le esigenze aziendali e quelle personali bisogna tenere conto che il risultato non dipende esclusivamente dalla bontà delle soluzioni tecniche: si tratta di valutare anche la dimensione culturale e simbolica fortemente sedimentata che valorizza in termini positivi le gesta dei “totalmente dedicati” e ne tramanda le storie in termini mitici.


Progettare il tempo, non rimuoverlo dal proprio essere personale e organizzativo è un’operazione indispensabile che ha come risultato quello di percepire il proprio essere come storia e come cultura. La velocità come valore in questo non aiuta, la velocità rabbiosa è l’esclusivo dominio del presente. Senza passato e futuro si perde la propria storia e senza storia viene meno il senso dell’essere, la sua identità.


La comprensione e la costruzione della dimensione temporale contribuisce quindi al “sensemaking” personale e organizzativo. L’identità compiuta di un soggetto può definirsi come la capacità di raccogliere le proprie radici e di proiettarsi nel futuro: l’identità è storia.

In senso più pragmatico l’orientamento al futuro senza rielaborazione storica del passato è cieco, perché senza meta-riflessione; in questo modo sia le persone che le organizzazioni non imparano dai propri errori.


Dare per scontato un assetto temporale univoco e non differenziato, non attento anche alle esigenze dei singoli, viceversa rimanda ad un governo del tempo centralizzato che può essere visto come una grande espressione simbolica di potere. (Gasparini, 2000).


Per concludere una ulteriore competenza organizzativo manageriale che si profila è quella costituita dalla capacità di svolgere una sorta di analisi del fabbisogno temporale (fig. 3).

Essa dovrebbe svolgersi seguendo i passaggi logici sopra delineati: è passaggio indispensabile una analisi del fabbisogno temporale organizzativo, che racchiude le velocità di innovazione dei prodotti/servizi erogati, quindi una velocità che potremmo definire di mercato. All’interno dell’organizzazione vanno comprese le tipologie di task e le qualità di tempo richiesto, ma anche bisogna delineare i momenti di integrazione spazio/temporale realmente necessari. Questa parte della diagnosi rimanda alla capacità di desincronizzare le presenze del personale in azienda, lasciando ad esempio alle capacità autorganizzantisi dei team la configurazione dei momenti di presenza simultanea. Si tratta quindi di utilizzare in modo più intenso modalità di integrazione a distanza quali telelavoro, video conferenze, e così via.


Agli aspetti di diagnosi di fabbisogno temporale intrinseco alla tipologia di organizzazione, al suo mercato, ai suoi task e alle integrazioni necessarie, bisogna affiancare l’analisi e la comprensione dei gruppi sociali con due versanti di conoscenza.

Da un lato, attraverso l’analisi del mood temporale si tratta di risalire alla cultura del tempo radicata nel gruppo. Dopo la diagnosi di fabbisogno temporale organizzativo è facile cogliere se la cultura è più o meno rispondete alle esigenze, e quindi evidenziare eventuali spazi di modifica.

Accanto a questo bisogna affiancare un monitoraggio delle esigenze di flessibilità individuali, riservando al cliente interno le attenzioni riservate al più venerato cliente esterno.


Sono questi gli elementi di base sui quali innestare una progettualità che contenga al suo interno una profonda rivisitazione di modalità di lavoro accentrate e sincronizzate ormai obsolete.

Quali possano essere gli esiti di questa progettualità non è facile a dirsi: dalle riflessione svolte finora si ricava l’esistenza di possibili molteplici modelli che devono venire sperimentati e validati concretamente dalle singole organizzazioni. Riportiamo a lato due esperienze, una narrata dal punto di vista aziendale, di chi ha pensato e progettato la flessibilità ed un’altra narrata da una persona che ha potuto sviluppare una esperienza di conciliazione molto particolare (vedi box). Quest’ultima può apparire un sogno: ma è davvero così utopica? Forse vi sono molte situazioni potenzialmente come quella descritta, si tratta di avere la volontà di scoprirle e la perseveranza di provarle.


E’ innegabile che l’epoca che stiamo vivendo sta segnando una modifica profonda dei codici temporali, dei valori loro assegnati e delle ricadute sulle percezioni soggettive. Tendenzialmente si rileva una sempre maggiore enfasi sul presente: si lavora affinché tutto avvenga in “tempo reale” con una dilatazione virtuale della simultaneità che rischia di confondere l’esperienza soggettiva del “qui ed ora” (Frazer, 1991). Quali conseguenze potrà avere questa modalità sui contesti sociali, sulle organizzazioni e sulle persone?


Si profila all’orizzonte un nuovo rapporto tra soggetti, tempo e tecnologie che andrà studiato, ma non necessariamente subito: gli esperti di organizzazione avranno nuove sfide da superare.




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