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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Riflessività e contesti organizzativi: abituarsi a pensare

1. Premessa


E’ sempre azzardato, per il tema della riflessività così come per altri aspetti della vita organizzativa, proporre letture di tendenze univoche, tale è la varietà di situazioni che ci si trova ad affrontare ed interpretare. L’approccio che vorrei suggerire è quindi più di interazione tra diversi elementi tentando di definire, da un lato, un possibile modello di lettura della riflessività nei luoghi di lavoro, dall’altro degli spunti di intervento che possano aiutare a migliorare un approccio generalmente autoriflessivo.

Un ulteriore elemento di premessa riguarda cosa si intende per riflessività, dal punto di vista operativo, data la nota difficoltà a tradurre il concetto in modo univoco anche da un punto di vista teorico. Possiamo quindi proporre di interpretare la riflessività come il processo che porta con sé due risultati: da un lato, la costruzione di senso organizzativo (Weick, 1995) e, dall’altro, la capacità del soggetto di dare senso alla propria esperienza (Giddens, 1994).

Questo processo, di comprensione del proprio agire, di consapevolezza del proprio modo di affrontare le realtà e di interagire con gli altri, di capacità di modulare il proprio comportamento in funzione della realtà organizzativa e di quanto viene richiesto, è riflessivo, nel senso che contiene la presa di distanza dal proprio operato, l’osservazione e la valutazione.


2. Un modello di lettura


Tornando a una possibile modellizzazione che consenta di interpretare i diversi contesti organizzativi, possiamo proporre come elementi influenzanti il processo sopra descritto, tre aspetti della vita organizzativa tra loro estremamente connessi, ma che è opportuno tenere distinti per meglio operare un percorso di disaggregazione interpretativa. Il primo elemento è, come già sottolineato, il soggetto, la persona che a diversi livelli opera in una organizzazione.

E’ un attore sociale che entra in un contesto, quello organizzato, evidentemente con una propria storia, delle proprie competenze, delle abilità e dei valori, ma che va a occupare una posizione organizzativa che può richiede di più, o di meno, di quello che il soggetto può o è disposto a dare. Il secondo elemento è l’organizzazione in sé, il disegno che viene tracciato per raggiungere i risultati organizzativi, i mandati che vengono assegnati alle persone, i sistemi operativi che regolano la vita interna. Il terzo elemento è la cultura organizzativa, ovvero quell’insieme di norme non scritte che regolano il controllo sociale tra i membri; una cultura che può essere di supporto agli obiettivi organizzativi, oppure una “contro-cultura” che contesta e si contrappone alla coesione verso il risultato: queste sono le posizioni estreme di un continuum che, al proprio interno, può avere miriadi di sfumature, tante quante sono gli oggetti di cui la cultura organizzativa si compone.


3, Il disegno organizzativo


Tornando alla definizione di riflessività, possiamo riprendere questi tre aspetti come tra loro collegati, ma con possibilità molto diverse di combinazione. Prendiamo in primo luogo in esame il disegno del contesto organizzativo cercando di valutarlo in relazione alla riflessività. Una domanda che è possibile porre è quanto questo disegno consenta, in qualche modo, la riflessività, o addirittura la induca. A questa domanda ne segue un’altra: quali sono i luoghi possibili, dal punto di vista organizzativo, in cui la riflessività può agire? La risposta è sia all’interno del processo lavorativo, dove potremmo parlare di riflessività on the job, che in momenti particolari, esterni al normale flusso quotidiano, segnatamente nella formazione, ma anche in altri momenti specifici in cui ci si incontra per valutare un andamento, discutere delle informazioni e così via.

Quindi questa è una prima traccia per valutare, se e come, la riflessività entra nel processo organizzativo. In alcuni contesti non esiste alcuna riflessività: sono ambiti molto diversi tra loro, ma accumunati dal non dare alcuno spazio organizzato del processo di ri-elaborazione del proprio agire.

Ciò si riscontra sia in molte aziende della pubblica amministrazione, dove raramente vengono proposte attività formative, oppure se vi è tempo dedicato alla formazione esso è costruito su argomenti poco mirati sulla specificità del contesto; sia nelle società di consulenza super-pagate, quelle che riflettono sugli altri contesti organizzativi, proponendo operazioni di change management sofisticate e complesse, ma che non riflettono sulle proprie modalità interne. In questi casi non vi è una aperta preclusione di natura ideologica, ma il tema principale addotto è la cronica mancanza di tempo. Lavorando su grandi progetti, generalmente con meno persone di quante ne necessiterebbero, oltre a chiedere orari disumani ai propri collaboratori, non vi è mai il tempo per fermarsi un attimo e chiedersi cosa si sta facendo, come e con quali risultati.

Sia nella pubblica amministrazione che nelle mega società di consulenza vi sono ovviamente situazioni virtuose, a cui io stessa ho partecipato, in cui sia on the job che attraverso la formazione, strumento chiave della riflessività, vengono proposti continui momenti di elaborazione del proprio operato. Purtroppo però sembra prevalere la tendenza a non utilizzare lo strumento formativo, e quindi riflessivo, come si dovrebbe. Vi sono, sempre dal punto di vista organizzativo, altri momenti di proposta di riflessività che si possono mettere in campo.

Nel corso della mia esperienza ne ho visti molti e alcuni di grande impatto: momenti culturali, quali talk show con persone di estrazione completamente differente, proposte teatrali, viaggi in altre realtà organizzative, laboratori formativi, ma anche ad esempio la gestione di un progetto di qualità o una riorganizzazione gestita attivamente; tutti momenti che possono aprire un dibattito e innescare una riflessione sul proprio modo di agire per, evidentemente, cambiare gli aspetti non coerenti.

Per concludere, questa sommaria disamina organizzativa, vorrei sottolineare come vi possono essere anche organizzazioni strangolate dalla riflessività: sono quegli ambiti solitamente sociopsico-pedagogici dove si trovano riuniti professionisti dell’introspezione che rischiano di sopravvalutare il momento di “meta” riflessione a scapito della produzione dei servizi in quanto tale. Universi spesso autoreferenti, dove l’analisi sembra sostituirsi al fare.


4. La cultura organizzativa


Il secondo elemento è la cultura organizzativa, intesa come i comportamenti condivisi e accettati del gruppo. Un insieme che può essere monolitico, di solito in organizzazioni con molti anni alle spalle, con poco turn over e con abitudini molto rigide, oppure articolato, dovuto a una relativa anzianità, sia aziendale che personale, a processi aperti di contaminazione con altre realtà, a lavori che spesso debordano oltre i confini della singola realtà. La cultura organizzativa è un elemento centrale e qualsiasi manager volonteroso deve partire da essa per comprendere le potenzialità di cambiamento del suo intervento.

Un esempio per tutti, molto frequente nelle realtà sanitarie e sociali: l’arrivo dei giovani - spesso pochi proprio per lo scarso turn over citato - portatori di nuove modalità operative apprese nella scuola, viene subito segnato da episodi di “nonnismo organizzativo” che tende a fare “abbassare la cresta” ai giovani galli, ma soprattutto a non fare intaccare lo status quo. “Abbiamo sempre fatto così” è l’affermazione che chiude ogni possibilità di riflessione. E così si continua a fare.

Si innestano in questa resistenza al cambiamento anche la conservazione di piccoli privilegi: se dispensiamo più in fretta il pasto serale nella casa di riposo, prima ci potremmo ritirare a chiacchierare e a bere il caffè, tanto a quest’ora, chi vuoi che venga a controllare? Interessante notare lo stesso atteggiamento in alcune linee aree, guarda caso italiane, in cui, per esperienza personale, anche in classe business, si dispensava a velocità supersonica per ritagliarsi tempo di riposo.

La buona notizia è che spesso, innestando in questo terreno apparentemente sterile, qualche elemento di novità, ad esempio un’attività formativa ben disegnata, è possibile scuotere da questo torpore e fare scoprire il piacere della riflessività, ovvero la dimensione protagonista di colei/colui che interviene attivamente e creativamente sul proprio lavoro. Ma non è detto: vi sono sacche di resistenza al cambiamento che sono durissime, soprattutto quando legate, come si diceva prima, a quelli che vengono vissuti come privilegi a cui non è possibile rinunciare.


5. La dimensione individuale


Ultimo, ma decisamente più importante: l’individuo. La persona entra in un contesto organizzato armata o disarmata della sua riflessività. Essa può essere un’attitudine presente nel soggetto, oppure una competenza che via via si propone e si inserisce nella vita organizzativa, ma - è bene esserne consapevoli - è una delle doti più rare da trovare.

Il tema della riflessività individuale si scontra con uno dei grandi scogli della vita organizzativa: quello di accettare un feedback, di farne tesoro e di non essere troppo in balia delle proprie emozioni. Riflessività significa valutare: il proprio modo di agire, il proprio operato e, in definitiva, se stessi. Le operazioni di senso che sono state descritte all’inizio, senso organizzativo (Cosa “produce” questa organizzazione? Mi propone una cultura organizzativa, un prodotto, dei servizi, dei colleghi nei quali posso identificami?) e senso individuale (cosa faccio io qui? Che contributo sto dando? 5 Sono motivato a questo lavoro) confluiscono in un più ampio tema personale che è quello dell’identità. Il lavoro, insieme con la famiglia e il primo grado di prossimità, è un elemento cardine di costruzione e di manutenzione della propria personale identità.

E’ questo il nodo che spiega perché la valutazione del proprio operato, che spesso diventa valutazione si sé, è così difficile, perché scatena emozioni che sono oltre il normale rapporto di lavoro e costruisce meccanismi di difesa spesso inespugnabili. Il tema, come si comprende, è una premessa alla costruzione di spazi di riflessività e, nella sua criticità, si propone a chiunque debba gestire un’organizzazione con le conseguenti regole di valutazione dei risultati organizzativi e delle prestazioni individuali.

Da quanto si è finora sottolineato, le realtà organizzative sono estremamente composite ed è difficile poter dare una lettura univoca di quanto avviene. Pur senza la possibilità di dare impossibili dimensioni quantitative, una risposta dettata dall’esperienza dice che - mediamente - nei contesti organizzativi esiste poca riflessività. Uno dei primi ostacoli è certamente il tempo, ma anche la capacità di cogliere la dimensione innovativa di un coinvolgimento più sostanziale degli attori organizzativi e, soprattutto, la scarsa innovazione dei setting formativi, ancora polarizzati tra l’inondazione dei lucidi, resa più facile dalle tecnologie informatiche, e le novità stupefacenti orientate al sedurre invece che all’insegnare.


6. Costruire contesti riflessivi


E’ ora necessario passare alla fase operativa, partendo dal modello sopra delineato. In sostanza la domanda è: dato per scontato che la riflessione è un processo di estrema utilità individuale e organizzativa, cosa possiamo fare, nei diversi ruoli, per supportare la sua diffusione all’interno delle organizzazioni?

Naturalmente la risposta a questa domanda potrà essere declinata in modo diverso a seconda del ruolo che si gioca nel contesto organizzativo, con una particolare attenzione alla distinzione tra ruoli manageriali e formatori. Nel caso dei ruoli manageriali la possibilità di incidere è evidente e non solo ad alti livelli. Con ruoli manageriali in questo ambito intendiamo persone che gestiscono persone, quelle che nelle aziende anglosassoni vengono chiamati people management. Per questi ruoli, aprire spazi di riflessività organizzativa è relativamente semplice, e dovrebbe rientrare nei mandati istituzionali.

Parliamo di committenza circa programmi di natura generale, siano essi formativi oppure organizzativi, oppure - per i ruoli a minor potere - di momenti di abbiamo definito on the job. Oltre ai piani formativi sono utili, quali momenti di riflessività, tutti quei progetti trasversali, ad esempio un programma di certificazione di qualità oppure l’introduzione di un nuovo strumento gestionale di natura informatica.

Sono tutti quei momenti in cui si può lavorare sul cambiamento prendendo soluzioni precostituite dall’esterno (dai consulenti che offrono soluzioni “chiavi in mano” che quasi mai si adattano all’unicità organizzativa), oppure costruendo le soluzioni con chi ci lavora, facendo tesoro dell’esperienza e, quindi, sollecitando una riflessione che abbia anche un risvolto progettuale e non solo diagnostico. A livello più micro significa, ogni tanto, indire delle riunioni di valutazione dell’operato organizzativo, aprendo la strada a un serio lavoro di équipe, spesso più evocato che praticato.

Come sottolineato precedentemente, non è facile costruire una cultura delle riflessività equilibrata, ovvero che la utilizzi, senza farne un feticcio, e che trovi il tempo necessario per stimolare dei percorsi organizzativi che sono, in definitiva, itinerario di apprendimento collettivo. La formazione, ovviamente, è il luogo deputato per eccellenza ad offrire spazi e strumenti di riflessività, ma spesso, come si sottolineava prima con qualche battuta, anche in questo ambito non è facile trovare formatori attenti a questo.

I due grandi nemici sono, da un lato le mode, dall’altro la sopravvalutazione dei contenuti. La moda è il contenuto nuovo che viene proposto a macchia d’olio, perché collegato a una idea che piace ai committenti (i responsabili dello sviluppo e della formazione), spesso più centrati sui loro interessi che sulle reali esigenze delle persone e delle organizzazioni. L’altro aspetto, quello della sopravvalutazione dei contenuti, rimanda a modalità mai tramontate di centratura sul docente, di scarsa capacità di attivazione delle persone, di una didattica che si muova più valorizzando l’esperienza che non il modello proposto. E’ l’eterno problema della connessione tra aspetti teorici e operativi, del gap tra le modellizzazioni generalizzante e il caso concreto che le persone vivono. Per concludere ritengo molto importante sottolineare il legame tra riflessività e innovazione. Con ogni probabilità, la scarsa capacità di cambiamento che caratterizza i nostri contesti organizzativi è anche legata alla limitata riflessività che viene proposta.

Certamente è possibile che, nonostante l’impegno sia dei manager che dei formatori, possano esistere persone che non abbiano attitudine/desiderio a questo tema. Come già accennato, questo accade soprattutto quando prevale un approccio emotivo, dove i feedback anche organizzativi vengono vissuti a livello personale, impedendo, di fatto, di chiudere il cerchio dell’apprendimento, sia personale che aziendale. Il tema della riflessività presuppone quella che si definisce mindfulness, ovvero la capacità di essere presenti in modo attivo a ciò che si fa. Un itinerario non facile, ma che vale la pena di sperimentare, cercando di indurre una cultura dove si possa instaurare il circolo virtuoso di riflessione, rilettura, diagnosi e cambiamento.

Riferimenti bibliografici


Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna

Langer E.J., (2008), La mente consapevole, Corbaccio, Milano.

Weick K. (1995), Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina, Milano

(in Focus – 15 dicembre 2001)


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