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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

La nuda verità

Aggiornamento: 23 apr 2020

Il manifesto per le donne che lavorano sulle cose che contano veramente - Prefazione


Il libro di Margaret Heffernan raccoglie quello che, a mio parere, è un sentimento diffuso tra le donne che oggi svolgono lavori gestionali, quelle che, con espressione che suona ancora ambigua, vengono definite donne manager. L’etichetta mi ricorda uno dei primi convegni degli anni Ottanta dal titolo: “ Manager sarà lei!”. Non conosco la persona o il gruppo che ideò quella frase, che in seguito ho ritrovato in un manifesto dietro la scrivania di una donna in carriera, ma essa rappresentava perfettamente il disagio dell’ingresso in un ruolo necessario, per agire un lavoro sempre più carico di significati personali e di potenziale cambiamento per i contesti organizzativi, ma, contemporaneamente, portatore di elementi simbolici e di potere così totalmente maschili da sviluppare una sorta di schizofrenia personale. Oggi i tempi sono cambiati, sempre più donne si muovono nei dintorni del “soffitto di vetro”, quella invisibile, ma ineluttabile barriera che segna i confini dei luoghi del potere come regno del maschile. Soprattutto sempre più donne hanno avuto modo di elaborare un percorso personale e collettivo per meglio comprendere i sottili meccanismi che presiedono alla vita dei gruppi organizzati nel raggiungimento di risultati economici, quali sono le imprese.


Da queste riflessioni emergono due posizioni che potremmo definire estreme. La prima, più consueta, è quella che sottolinea con forza gli elementi di discriminazione ancora profondamente radicati e attivi nei contesti lavorativi, elementi che conducono a scegliere sempre “l’uomo giusto al posto giusto”, che enfatizzano come primo punto della partecipazione delle donne al mercato del lavoro il “costo” che esse rappresentano, sia nella dimensione diretta della maternità, sia in quella indiretta dei servizi che lo Stato deve offrire perché le donne, uscendo di casa, lasciano dietro di sé un vuoto nel lavoro di cura che deve essere colmato con servizi quali asili nido e case di riposo. Una visione, questa, ancora molto presente nell’intera società italiana che, non essendo mai completamente decollata verso il post-fordismo, considera tuttora il salario e il bilancio economico come l’unica e centrale causa dell’ingresso delle donne nel lavoro. Raramente nelle pratiche organizzative della maggior parte del tessuto produttivo italiano, quelle mitiche piccole medie imprese, prima delizia e oggi croce della nostra partecipazione all’economia mondiale, il lavoro viene considerato anche nel suo aspetto di contributo alla costruzione dell’identità individuale, nella dimensione di autorealizzazione personale. Una dimenticanza che forse costituisce il paradigma di una crescente divaricazione tra i bisogni personali di fasce di popolazione con discreta cultura e desiderio di achievement e la risposta protoindustriale del capitalismo familiare: il mio profitto come tua motivazione. In questa miope visione perché le donne dovrebbero lavorare se non per integrare il reddito del marito, ancora unico centrale breadwinner? Nel momento in cui il reddito maschile sale, le donne possono stare tranquillamente a casa. In un dibattito in azienda nel profondo nord, un signore che voleva difendere il suo modello di vita, con moglie casalinga e architrave dell’organizzazione familiare che a lui veniva completamente risparmiata, mi chiese: “Ma lei avrà preso delle baby sitter?” Con questa domanda, per lui offensiva, voleva evidentemente porre il suo modello come superiore al mio, che avevo affidato la mia prole a mani prezzolate.

Da questo humus nascono le posizioni critiche nei confronti delle organizzazioni come consolidati luoghi di discriminazione, spesso non diretta e non perseguita in modo lucidamente conseguente. La discriminazione nasce da meccanismi organizzativi molto studiati dalla letteratura. Che il potere, ad esempio, sia omofilo, lo sottolineava con estrema competenza Rosabeth Moss Kanter già nel 1977. Le posizioni di vertice, in tutte le organizzazioni, patiscono un problema che è endemico. La performance, il risultato atteso e perseguito, non è di facile evidenziazione. È un dibattito antico e attuale nello stesso tempo: come si valuta la prestazione di un amministratore delegato, di un direttore di funzione? Deve essere associata alle performance aziendali che in una azienda quotata si traducono nel mitico aumento di valore per gli stakeholder? E che cosa osservare in un’azienda non quotata? In Italia è facile trovare moltissimi vertici aziendali che rimangono al loro posto nonostante risultati pessimi. In una struttura produttiva dalla meritocrazia lasca, i modelli di inserimento nelle posizioni di potere, nel mitico olimpo manageriale oltre il soffitto di vetro sono modelli di cooptazione legati a omogeneità di interessi, non sempre necessariamente coincidenti con quelli degli stakeholder. Ecco perché il potere è omofilo: perché cerca e privilegia gli eguali e lascia fuori come inutile o ingombrante la diversità, anche quella di genere. In questo contesto si comprende come la posizione femminile che ancora sottolinea la discriminazione, spesso sottile e occulta, come un dato operante in modo smaccato nei contesti economici nazionali, non sia completamente nell’errore. Essa suscita però, quando è radicale, molte perplessità. Da un lato presta il fianco alle critiche da parte del management maschile e femminile che, con una metafora politica, potremmo definire “moderato”.


Lo spettro paventato è quello del vetero-femminismo. In un recente e paludato convegno un importante amministratore delegato, dopo aver ascoltato una riflessione sulla diversità e sugli stereotipi presenti fisiologicamente nei contesti sociali, commentava pubblicamente: “Mi sembra di essere capitato in un covo di femministe!”. La frase non è stata ulteriormente specificata ed è mancato quindi un approfondimento circa le caratteristiche associate come stereotipi a questo gruppo, che cosa lui intendesse esattamente e, soprattutto, quali pericoli paventasse nell’essere capitato in un “covo” di persone evidentemente coalizzate e che tramano contro un potere (legittimamente?) costituito. È interessante come le parole costituiscano un universo simbolico di ricchezza formidabile e come in una singola frase posta in apertura di un pubblico intervento, si possano condensare significati profondi e archetipici. In questa espressione si condensa la paura di perdere il potere per mano di armate rivoluzionarie. La suggestione delle femministe arrabbiate e radicalmente contestatrici dell’ordine costituito è però immagine che turba anche la coscienza femminile. È una domanda che spesso mi viene posta come incipit da molte interlocutrici interessate alle mie attività di ricerca. Una manager importante mi chiedeva: “ Come si fa a esplicitare i problemi che incontriamo senza passare per femministe?”. Questa posizione ne contiene un’altra simmetricamente correlata: enfasi sugli elementi di discriminazione e sugli ostacoli prodotti dal contesto e dalla cultura organizzativa porta con sé un atteggiamento di lamentazione e di richiesta che poco si concilia con un’immagine or- mai metabolizzata di persone attive e proattive, che sanno conquistare con tranquillità e determinazione le proprie carriere, negoziando alla pari ai tavoli del potere, senza pietire, con competenza e professiona- lità. Viene contestata l’immagine di una donna che, come agli inizi dell’industrializzazione, necessita di “protezione”, insieme ai fanciulli, segmenti deboli del mercato del lavoro. Viene rigettata un’ immagine che sposta il locus of control del comportamento da dentro a fuori di sé. Non sono quindi gli ostacoli che devono essere continuamente sottolineati, non vi sono petizioni da scrivere e battaglie da lanciare, ma bisogna prendere la vita nelle proprie mani e continuare nel percorso, fiduciose di magnifiche sorti e progressive. All’estremo opposto di questa visione che coglie ed enfatizza gli elementi di discriminazione, siano essi diretti o indiretti, ancora presenti nelle organizzazioni, se ne contrappone una che minimizza, fino ad annullare, le problematiche esistenti. È una posizione molto diffusa tra le donne agli alti vertici organizzativi. Poche, quindi, ma in ruoli da opinion leader. Sono quelle che rispondono con fastidio alle domande sul femminile, che sottolineano il loro essere “persone”, e non donne, quasi che la ridondanza di elementi biologicamente evidenti, non possa che nuocere nei contesti aziendali. Da un lato questa posizione è comprensibile per il rischio che la sottolineatura del genere comporta. Le caratteristiche associate come stereotipi all’essere uomo o donna, condivise dal gruppo sociale di riferimento, possono seriamente nuocere alla carriera. Se nella valutazione della prestazione o del potenziale, il valutatore associa il genere, spesso questa valutazione subisce una deformazione. Argomenti molto studiati nella letteratura manageriale e che sottolineano il difficile percorso verso un’accettabile obiettività organizzativa di tutte le posizioni gestionali, quei bias o deformazioni cognitive devono essere, correttamente, tenuti sotto controllo. E allora, le donne sagge, sapendo di questo rischio, minimizzano la loro appartenenza di genere. “ Giudicatemi come una manager o un’imprenditrice, non come una donna!” potrebbe essere la loro frase “manifesto”. Di questa posizione fanno però parte anche le donne più radicali. Non solo quindi quelle che ritengono ridondante l’elemento del genere rispetto alla prestazione e ai risultati, ma anche coloro che trovano questo elemento come strategicamente inutile. È la posizione che potremmo definire going native. È questo il termine che nella letteratura di cross cultural management viene riferito alle persone che risiedono da lungo tempo in un contesto culturale diverso, e che ne assumono le caratteristiche implicite dimenticando inconsciamente le proprie radici culturali. Raccontava recentemente un manager italiano che vive in Cina da molti anni della sua profonda irritazione alla modalità con cui un connazionale si era presentato, sia nel modo di parlare sia negli elementi simbolici, quali lo scambio dei biglietti da visita, da dare con due mani secondo le consuetudini cinesi e non da gettare sul tavolo con noncuranza. Dopo qualche ora, quando la rabbia ha lasciato il posto a una pacata riflessione, il manager si è reso conto di avere utilizzato, in modo implicito, il software culturale ormai a lui consono, decisamente più vicino a quello cinese che a quello italiano. Il going native, assimilato ai comportamenti dei nativi, poco sopporta le modalità relazionali della tribù di provenienza. Molti studi recenti sul genere sottolineano questa diversità come una delle più ampie differenze culturali. Le donne going native sono quelle ormai assimilate al gruppo maschile, sia nei comportamenti sia nei valori, sono le guerriere delle battaglie per le quote di mercato e di profitto, sono un “ragazzo nel gruppo” dei venditori rassegnate alle barzellette politicamente scorrette, sono spesso figlie di imprenditori famosi, che oggettivamente non hanno mai trovato ostacoli nella loro carriera, perché supportate da un network più forte in termini di potere di qualsivoglia appartenenza di genere.


La strada che Margareth Heffernan propone è esattamente intermedia a queste due posizioni estreme. E vi sono diversi motivi di interesse alla sua proposta. Il primo motivo credo sia evidente anche dalle descrizioni precedentemente effettuate: le due posizioni schematicamente delineate costituiscono, pur nel loro posizionarsi agli estremi, quello che negli studi sulla comunicazione viene definito un double bind, un doppio legame. Questa trappola, descritta in modo puntuale prima da Bateson e poi da Watzlawich, costituisce un esempio pragmatico di efferato sadismo. In parole semplici, chi si trova di fronte a un doppio legame, ha davanti a sé due strade da scegliere e qualsiasi sceglierà sarà un errore. Nel caso delle due posizioni sopra delineate, scegliendo la strada lamentatoria, l’enfasi sulle discriminazioni esistenti, si rischia di annullare un’immagine che invece le donne in carriera stanno amando sempre più: quella di sentirsi alla pari, prima ancora di esserlo. Di avere le carte in regola legate a un scolarità crescente e qualificata, di sapere bene le lingue, di essere capaci di decodificare i bisogni di un contesto organizzativo aziendale. Nella seconda strada sbagliata del doppio legame, quella going native, le donne sono talmente assimilate da perdere completamente le loro caratteristiche di genere. Lo slogan “Non donna, ma persona” porta con sé l’abbandono di quelle caratteristiche di “presa di cura”, di attenzione sottile, di capacità di cogliere l’interesse generale, invece del particolare. Personalmente ritengo che l’alienazione dall’identità di uno degli elementi portanti del femminile, qual è il maternage positivo, che accudisce senza soffocare, che sostiene senza invadere, sia uno dei fattori causali più forti della cosiddetta cattiveria femminile. La domanda è: è possibile riuscire a superare il doppio legame? E come? È una domanda che ho girato a tre amiche che vivono sopra il soffitto di vetro e che cercano, con la loro vita e il loro lavoro, di interpretare questa via di mezzo, senza acrimonia, ma non in modo ingenuo, praticando uno stile di leadership che non azzeri le caratteristiche femminili. Si tratta di Rosanna D’Antona, Maria Pierdicchi e Chiara Grosselli*. A loro ho chiesto di commentare la prima nuda verità, ovvero di dirci se le organizzazioni siano ancora oggi molto maschili nell’intimo e frequentemente discriminanti. La risposta è stata unanime: ancora oggi si legge uno stupore quasi rassegnato in molti uomini che devono trattare con una donna ad alto livello. È un’impressione non generalizzabile, ovviamente, ma molto più frequente di quanto ci si potesse aspettare. “Lo stupore di avere a che fare con una donna è certamente molto più italiano che non legato a contesti internazionali” sottolinea Pierdicchi, mentre D’Antona aggiunge: “C’è sempre una battuta di enfasi nell’avere una donna a un tavolo di potere, magari solo per sottolinearne la bravura”.


La frequentazione femminile del potere non è, quindi, naturalmente accettata, nonostante siano passati moltissimi anni dall’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Le barriere non sono uguali in tutti i settori e, secondo Pierdicchi, più elevate nella finanza e nell’industria, diventano meno accentuate nel terziario. Tutte e tre sottolineano come gli elementi discriminatori devono essere valutati con disincanto, ma senza particolare enfasi. “Ogni donna deve essere consapevole della possibili resistenze o dei pregiudizi che l’ambiente di lavoro può riservarle. Ma deve saperli affrontare con intelligenza e con la certezza delle proprie capacità, professionali e caratteriali”, sottolinea Grosselli. “La natura femminile spesso ha delle caratteristiche uniche che possono fare davvero la differenza in molte situazioni: buon senso, approccio concreto, sensibilità, intuito, determinazione, flessibilità, capacità di mediazione e – perchè no? – ironia. Saper valorizzare le doti “femminili” è la strategia migliore per affermarsi, evitando di adottare stili o comportamenti tradizionalmente maschili. In tal modo si riducono anche le occasioni di competizione aggressiva e si creano opportunità per collaborazioni basate sulla complementarità e con obiettivi di più ampio respiro”. Concorde è l’impressione che alle donne venga richiesta sempre e comunque una prestazione eccellente, mentre nella massa degli uomini qualche persona normale, o anche un po’ sotto la media, possa essere tranquillamente tollerata. “Anche se – raccomanda D’Antona – è opportuno non sottolineare sempre e solo il bicchiere mezzo vuoto. Nella comunicazione d’azienda abbiamo imparato che insistere sugli aspetti negativi o i limiti sposta l’attenzione da quelli positivi e potenzialmente vantaggiosi. Le donne hanno molto da dare in termini di valore aggiunto. Questa dovrebbe essere la principale argomentazione e non solo la sottolineatura degli aspetti di discriminazione”. Nel libro viene anche trattato un argomento spesso tabù nella letteratura manageriale, quello delle molestie sessuali. Per curiosità ho chiesto loro un parere e un confronto e anche su questo tema vi è stata una posizione unanime: non è molto frequente nella carriera di una donna, ma è endemico soprattutto per le giovani che entrano nelle organizzazioni e che devono ancora capire le modalità accettate di comunicazione. In questi momenti capitano richieste più o meno esplicite di favori. È giusto allora mettere in guardia queste giovani donne, ed esortarle a non avere paura di trovarsi una mentore più anziana che le possa aiutare a decodificare messaggi ambigui e a trovare strategie di soluzione il meno possibile lesive della propria integrità. Rimane aperto il quesito del modello: tra le due strade sopra delineate quale intraprendere? Bisogna essere competenti, studiare, non avere paura di affrontare la propria autorealizzazione. Per fare questo le intervistate sono d’accordo con quanto suggerisce il libro: scoprire innanzitutto le proprie passioni, conoscersi, sapere quali talenti si hanno a disposizione. Superando con pazienza le carenze di autostima femminili, sempre in agguato e che rischiano di alimentare un atteggiamento rinunciatario in partenza, senza la volontà di inseguire il proprio sogno. È forse proprio il sogno personale che può aiutare nel proporre un punto di vista altro alle organizzazioni sadicamente incollate alla bottom line. Saper salvaguardare il proprio punto di vista femminile significa ampliare l’idea manageriale di responsabilità oltre i confini dell’azienda, saper leggere le dinamiche della società e cercare di portare il proprio onesto contributo a un orizzonte più allargato; significa leggere i bisogni delle persone che lavorano oltre la dimensione economica, cercando di ridefinire un senso nel lavoro che, nei modelli tradizionali, rimane ancorato alla mera dimensione quantitativa. Chi meglio delle donne che non lavorano solo per i soldi può comprendere appieno il significato di autorealizzazione, quel mitico achievement che abita il piano più elevato della scala dei bisogni personali? La strada è tracciata, ma per percorrerla fino in fondo è necessario tenere sotto controllo un’emotività che rischia di dilagare, non per cancellarla, ma per dosarla in modo pertinente. Una strada insomma che richiede forza per misurarsi con i contesti organizzativi e modificarli, se necessario, ma che comporta anche una grande dose di introspezione, perché ciascuna trovi la sua via che, insieme alle altre, dia il segnale di qualcosa di nuovo in un mondo manageriale ancora permeato di metafore aggressive e di lotta. La frase riassuntiva di questo auspicio è quella che Heffernan pone in conclusione alla sua prefazione: “È spiacevole constatare che stereotipi, vessazioni e discriminazione sono ancora fra noi. Ma è divertente scoprire che ci sono donne che lottano fra tutti questi ostacoli per migliorare il proprio concetto personale di potere, per elaborare una combinazione di vita e lavoro che le soddisfi pienamente, per progettare percorsi di carriera che non implichino una scissione fra valori personali e valori professionali, per guidare aziende che offrano all’intera comunità del business un’ottica alternativa su come è possibile lavorare”. Le persone intervistate non solo sono d’accordo con questa affermazione, ma ci provano, quotidianamente, insieme ad altre moltissime donne. Speriamo che, con il procedere del tempo, vessazioni e discriminazioni diminuiscano sempre più. È difficile che scompaiano, ma questo non deve spaventare. Sarà necessario, come sempre, essere un po’ più brave e determinate del passato.


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