Alcuni fenomeni per anni appannaggio di una ristretta schiera di addetti ai lavori possono assumere improvvisamente gli onori della ribalta e venire proposti al dibattito generale in situazioni divulgative. In questo momento radio, giornali specialistici, ma anche giornali femminili, si stanno occupando del “mobbing”!
Con questo termine mutuato dall’etologia, si intende qualificare un comportamento aggressivo tra componenti della stessa specie che individuano un soggetto e lo fanno oggetto di comportamento aggressivo fino ad isolarlo (Baldassarri, Depolo, 1999)
Dall’etologia alla pratica organizzativa il termine si estende fino a trattare qualsiasi fenomeno di aggressività all’interno dei luoghi di lavoro. Questa prassi genera notevole confusione in quanto non consente di distinguere forme diverse di conflitto che necessitano di diverse modalità di trattamento sia da parte del management che da eventuali authority preposte a funzioni di arbitraggio.
Che la vita aziendale sia punteggiata da numerosi momenti di asperità, di disaccordo, di incomprensione è cosa nota a chiunque abbia lavorato e lavori, che questi momenti a volte si traducano in una situazione di grande sofferenza per i soggetti è visibile a chiunque presti ascolto alle situazioni organizzative. Il problema che si pone è di fornire mappe di decodifica dei fenomeni conflittuali per affrontarli nella direzione di una soluzione positiva.
La gestione e la risoluzione di questi conflitti è spesso causa di fatica e stress che conduce ad un giudizio negativo sui conflitti stessi visti come un intralcio inutile e ridondante al raggiungimento dei risultati organizzativi.
La prima considerazione indispensabile nell’affrontare la problematica dei conflitti aziendali riguarda la comprensione della ineluttabilità dei conflitti : non può esistere una situazione organizzativa scevra da conflitti perché molti di loro sono fisiologici, appartengono alla inevitabile dinamica del confronto tra persone e possono essere segno di vitalità organizzativa.
Un secondo elemento di premessa riguarda il fatto che il conflitto “parla”, descrive una situazione organizzativa che deve essere interpretata. Esso può essere segno di dinamismo o di cambiamento in atto ; o può, viceversa, essere segnale di gravi problemi che non vengono risolti.
Alcuni osservatori sottolineano come il conflitto sia positivo, sempre e comunque. La tesi che qui si vuole sostenere è : esistono diverse tipologie di conflitti che devono essere diagnosticati ed interpretati per discernere le relazioni di causa sottostanti. Da questo discende che una competenza manageriale importante consiste proprio nella capacità di diagnosi e intervento sulle dimensioni conflittuali che emergono nei contesti che si gestiscono.
Il presente lavoro vuole introdurre una mappa di decodifica dei conflitti che aiuti a comprenderne la natura del conflitto e le possibili soluzioni. Come si vedrà alcune tipologie di conflitti sono più risolvibili di altre, ovvero per alcuni la soluzione è piuttosto semplice, per altri quasi impossibile.
Inoltre alcune tipologie di conflitti che affondano le loro radici in determinati stili di leadership possono avere delle conseguenze letali sul clima organizzativo : essi sono come dei virus che si propagano per l’organizzazione, ammorbandola.
La capacità di gestire i conflitti è, quindi a tutti gli effetti, una competenza manageriale di primaria importanza, anche se poco immediatamente visibile. La comprensione manageriale delle fonti, della struttura e della dinamica dei conflitti è necessaria per due ordini di motivi. Il primo riguarda la capacità soggettiva di destreggiarsi nelle trame conflittuali dell’organizzazione, esercitando dei comportamenti tesi a preservare sia i propri livelli di stress che le conseguenze potenziali sull’organizzazione. Il secondo afferisce alla necessità di agire nella gestione dei conflitti di altri, soprattutto dei collaboratori, in modo valido sia per i risultati organizzativi che per il mantenimento di un clima favorevole tra i membri dell’organizzazione.
I conflitti legati al disegno organizzativo
Prima di introdurre la dimensione conflittuale legata al rapporto interpersonale, che sarà la chiave di lettura adottata nei punti successivi, è necessario evidenziare come esista una stretta relazione tra il disegno organizzativo strutturale, i sistemi operativi adottati e i rapporti tra i soggetti.
Vi sono dei luoghi organizzativi che per disegno o per funzioni che vengono esercitate, sono ad alta concentrazione di conflitti potenziali. Le riflessioni che seguono hanno lo scopo di porre l’attenzione su questi luoghi evidenziando, ove possibile, i confini patologici dei conflitti organizzativi.
Alcuni sotto sistemi organizzativi hanno missioni tra loro contrastanti. Ad esempio la funzione acquisti ha generalmente un mandato di contenimento costi di ciò che viene acquisito mentre la linea utilizzatrice ha un mandato di tipo qualitativo. La dimensione conflittuale del disegno organizzativo è quindi fisiologica, ed è dalla integrazione e dalla comunicazione tra questi due sotto sistemi che si ottiene il risultato migliore per l’impresa nel suo complesso. A volte, purtroppo, la progettazione poco attenta di sistemi operativi - ad esempio di costruzione di obiettivi e di relativo premio delle due funzioni – può fare degenerare la cooperazione in una competizione distruttiva. Si tratta di soddisfare in modo organizzativamente coerente dei fabbisogni di integrazione di tipo sofisticato (Camuffo, 1997; Decastri, 1997).
In questo ambito si possono collocare altresì i conflitti legati a disegni a matrice. Anche in questo caso il disegno organizzativo è foriero di negoziazioni quotidiane. E’ importante che i soggetti siano consapevoli di questa fisiologicità: la cultura della “vittoria” verso altre funzioni rischia di rendere endemica una dimensione di stress che i soggetti possono difficilmente tollerare.
Un altro luogo di potenzialità conflittuale si situa nel rapporto tra funzioni che sono legate da una relazione del tipo cliente – fornitore, ancorché interni ai confini organizzativi. Si intendono le funzioni il cui output si rivolge ad altri sottosistemi aziendali, ad esempio la Direzione del Personale, l’Amministrazione e il Controllo di Gestione, i Sistemi Informativi. Due sono le dialettiche caratterizzanti i rapporti tra queste funzioni di servizio e quelle utilizzatrici : una prima dimensione riguarda l’equilibrio accentramento / decentramento, con un conseguente conflitto di allocazione di “potere” rispetto alla discrezionalità di utilizzo di alcune leve, mentre una seconda dimensione si riferisce alla tipologia e alla qualità del servizio offerto, come nelle normali dinamiche cliente – fornitore.
Per chiarire questi due punti si porta ad esempio la funzione di gestione del personale (ma le problematiche che si affrontano riguardano anche le altre funzioni di supporto o integrative). Il primo problema riguardando l’accentramento - decentramento di progettazione e utilizzo degli strumenti di gestione delle risorse umane, pone il problema di quanto la selezione o la valutazione della prestazione, ad esempio, debba essere gestita dalla funzione o delegata alla linea utilizzatrice. Questa scelta non può prescindere dalla constatazione di quanto gli strumenti utilizzati nella valutazione della prestazione possono essere ad alto contenuto specialistico e connotati da un know how che , ad esempio, solo uno psicologo sa usare. La comunicazione tra i soggetti appartenenti a queste due funzioni sarà più fluida se il disegno organizzativo si sarà fatto carico di definire i confini di “potere” relativo tra le due funzioni. Se ciò non accade i soggetti potranno intraprendere un rapporto conflittuale che, più che legarsi al merito della discussione, avrà per oggetto la definizione degli equilibri di potere. Alcune dimensioni di incomprensione saranno anche legate al gergo e alle mappe cognitive specialistiche che le funzioni di staff normalmente usano, incomprensione che tratteremo nei conflitti di contenuto.
Conflitti legati alla definizione dei ruoli o delle posizioni. E’ questa una situazione quotidiana in cui si verificano interventi di diverse persone su una attività o, viceversa, l’assenza di interventi perché nessuno ritiene l’attività o il compito tralasciato, di propria competenza. E’ questa una tipologia di conflitto che un tempo veniva risolta con la chiarificazione delle rispettive aree di competenza. Oggi le tendenze all’appiattimento e alla dimensione orizzontale, processuale della organizzazione del lavoro (Manzolini, Soda, Solari, 1994) , portano ad una maggiore difficoltà di definizione dei ruoli. Questo significa che si innalzano i momenti negoziali, in cui le persone, interpretando diversi ruoli organizzativi, devono mettere in discussione, quotidianamente i loro confini di ruolo.
Conflitti legati ai carichi di lavoro sovra dimensionati. E’ questo un fenomeno molto attuale legato ai fenomeni di downsizing che hanno attraversato molte organizzazioni. La paura della competizione sui costi porta ad un contenimento a volte ai limiti del personale, con il risultato di avere, nei momenti di picco dell’attività produttiva, dei carichi di lavoro eccessivi che costringono ad un impiego del tempo individuale di lavoro molto ampio. In questa situazione di stress i conflitti aumentano sia per l’inevitabile desiderio di non voler aggiungere altri carichi di lavoro, sia per la tendenza ad attribuire alle funzioni o ruoli adiacenti le attività di confine
Possiamo quindi concludere affermando che il disegno organizzativo e dei sistemi operativi può avere un’influenza importante nel aumentare la dimensione conflittuale tra le persone. Osservare l’organizzazione, tenendo presente quanto può essere una possibile causa di un clima conflittuale aiuta a prevenire lacerazioni interpersonali.
Questo tuttavia non sempre è possibile : in particolare osservando le tendenze organizzative di appiattimento e di evidenziazione dei processi orizzontali, molti aspetti di competenza relativa delle persone, gli approfondimenti disciplinari, le dimensioni a matrice, contribuiscono a creare dei conflitti che non possono essere risolti ex ante nel disegno organizzativo.
E’ necessario allora da un lato costruire attraverso la formazione delle competenze di tolleranza e di gestione delle dimensioni conflittuali, dall’altro lavorare sul clima organizzativo affinché si diffondano culture di fiducia reciproca e quindi di cooperazione.
Incomprensioni relative ai contenuti della comunicazione
Per iniziare a riflettere sulle incomprensioni relative ai contenuti della comunicazione, iniziamo con l’affermare che in ogni scambio comunicativo esistono due livelli di comunicazione che a loro volta si avvalgono prevalentemente di due linguaggi diversi.
Quando due persone comunicano hanno tra loro un legame che si articola contemporaneamente sul livello di contenuto e su quello di relazione. Il livello di contenuto riguarda le informazioni, che le due persone si trasmettono, il COSA della comunicazione. Il livello di relazione è invece relativo alla posizione reciproca che le persone assumono durante lo scambio. In altre parole il livello di relazione di riferisce ad una dimensione negoziata implicitamente, prevalentemente a livello non verbale, della tipologia di legame esistente tra le due persone.
→ livello di contenuto (linguaggio numerico) PERSONA A PERSONA B →livello di relazione (linguaggio analogico)
Il livello di contenuto è prevalentemente il COSA della comunicazione, mentre il livello di relazione riferendosi al COME avviene la comunicazione esplicita la “proposta relazionale” reciproca dei due soggetti che comunicano. Per esemplificare lo stesso contenuto, poniamo la richiesta di un documento, può essere articolato con modalità suadenti o con un tono di voce e una gestualità imperativa. Il contenuto in questi due ipotetici scambi comunicativi non cambia. Viceversa la “proposta relazionale” nel primo caso è gentile e di richiesta, mentre nel secondo sottende una posizione “alta” di chi dà, e può dare, degli ordini. Quando questa posizione non viene riconosciuta, e quindi l’interlocutore non accetta una siffatta proposta relazionale, di solito si sentono delle frasi del tipo “Non mi sono arrabbiato per quello che mi ha detto, ma per il COME !” e quindi l’altro si sottrae a questa tipologia di relazione o cerca di rinegoziarla.
I due livelli di avvalgono prevalentemente di due linguaggi. Il livello di contenuto utilizza il linguaggio numerico che si articola in convenzioni semantiche di cui è necessario conoscere le regole (Giovannini, 1998). Il livello di relazione è prevalentemente appannaggio del linguaggio analogico non verbale (Watzlawick e al., 1971)
I contenuti della comunicazione vengono individualmente processati attraverso modelli mentali. Possiamo tralasciare nell’economia di queste riflessioni le modalità con cui questi modelli operano (Johnson Laird, 1988, Cohen, 1987) per concentrarci invece sugli scopi dei modelli e quindi sulla rilevanza che essi assumono nella comunicazione.
Possiamo definire le mappe cognitive o modelli mentali, il software di cui ciascuno dispone per confrontarsi con la realtà.
Le mappe cognitive hanno innanzitutto la funzione di orientare l’osservazione. Nella pluralità degli input sensoriali che ciascun soggetto governa, viene operata una selezione dovuta all’attenzione, all’interesse ma anche alle conoscenze di cui ciascuno dispone (Codara, 1998).
Osservando delle gocce che cadendo in un bicchiere di liquido di colore viola lo fanno scolorare fino a trasparenza, la reazione di una persona può essere di stupore, quasi in presenza di una magia, piuttosto che di consapevolezza di un fenomeno chimico ancorché ignoto. Infine un individuo con le conoscenze necessarie sarebbe in grado immediatamente di identificare un viraggio dell’indicatore fenolftaleina dall’ambiente basico a quello acido.
In conclusione possiamo vedere ciò che almeno in parte possediamo nel nostro bagaglio cognitivo, costruendo la realtà con i nostri processi mentali, piuttosto che subendola come dato oggettivo.
Secondo Huff (1990) le mappe mentali consentono:
di prestare attenzione, di governare associazioni e di mettere in ordine di priorità informazioni ricevute
di ordinare le stesse informazioni in categorie o tassonomia
di leggere influenze reciproche, legami causali e modalità dinamiche
di costruire strutture logiche argomentative e di trarre delle conclusioni
Appare evidente dalle considerazioni sviluppate che la realtà deve essere continuamente filtrata, osservata ed interpretata per poter decidere, sia a livello individuale che di gruppo, delle risposte appropriate di comportamento.
Nella dimensione aziendale, che è il nostro fuoco di osservazione prevalente, sono moltissimi i momenti in cui diversi soggetti si devono confrontare a livello cognitivo nei diversi ambiti sopra descritti.
Questa sommaria rappresentazione della dimensione di contenuto all’interno di uno scambio comunicativo serve per poter comprendere i potenziali conflitti che possono rendere difficile la comunicazione.
Percezioni diverse, classificazioni divergenti, diagnosi causali di diversa natura sono tutte fonti di confronti, anche aspri, che devono essere risolti nella dinamica della comunicazione.
I conflitti di contenuto hanno, in realtà, una dimensione di plasticità molto elevata. Mappe cognitive divergenti possono essere confrontate fino ad arrivare ad una soluzione comune. Questo è possibile in dipendenza della disponibilità soggettiva al confronto. In altre parole la possibilità di affrontare i conflitti di contenuto dipende dalla positività (o almeno dalla neutralità) della relazione presente.
Il confronto tra diverse mappe cognitive è tanto più difficile quanto queste sono peculiari e/o specialistiche. Nella comunicazione tra un esperto di sistemi informativi e l’utilizzatore degli stessi, l’efficacia della comunicazione dipenderà da quanto il primo riuscirà a rendere terminologie e modelli interpretativi all’altezza della relativa incompetenza del proprio interlocutore, instaurando delle convenzioni semantiche condivise. D’altro canto l’utilizzatore dovrà avere una disponibilità di apprendimento nell’affrontare un territorio nuovo e quindi nella dotazione di mappe che dovrà soggettivamente costruire. L’esempio fa comprendere come gli ambiti di conflitti di contenuto siano tanto più elevati quanto è distante la specializzazione degli interlocutori.
Si potrebbe, alla luce delle riflessioni sulle mappe mentali, descrivere uno dei compiti del management come di traduzione tra diverse mappe cognitive e quindi come costruzione di “mappe cognitive di interfaccia” che consentano ai diversi attori dell’azione organizzativa di costruire un significato condiviso al proprio agire.
Dal punto di vista operativo questo compito si traduce in moltissimi momenti della vita aziendale: dalla comunicazione personale, ai momenti di mediazione cognitiva tra due o più persone, al coordinamento di gruppi e di riunioni in cui si mettono a confronto diverse ipotesi e diverse soluzioni.
Una ulteriore dimensione di conflitto di contenuto si posiziona nei percorsi mentali. La decisione di affrontare il nuovo cliente in modo analogo agli altri o con un trattamento diverso e privilegiato, potrebbe essere oggetto di disaccordo. Questo significa che si dà una diversa interpretazione della situazione che, a sua volta, potrebbe essere causata da una diversa percezione e classificazione della tipologia di cliente. Un conflitto a livello interpretativo non può essere affrontato che retrocedendo nei percorsi di pensiero, mettendo in evidenza, disoccultando, le mappe utilizzate sia nella percezione che nella classificazione.
Infine, utilizzando ancora la metafora “cartografica” alcune mappe possono essere di dimensioni molto ampie, altre di estremo dettaglio. Questo conflitto è leggermente diverso da quello tra specialisti diversi. E’ invece più facilmente assimilabile a quello esistente tra coloro che occupano una posizione specialistica e le persone a livello gestionale. Entrambe queste persone hanno una visuale particolare che devono confrontare e negoziare per arrivare ad una visione comune.
La dimensione cognitiva del conflitto per essere opportunamente trattata, deve essere tenuta separata dalla dimensione relazionale o emozionale. Questa affermazione può apparire una forzatura nella misura in cui gli scambi comunicativi che i soggetti esperimentano sono assolutamente intrecciati delle due dimensioni. La tesi che si sta sostenendo riguarda la necessità di una competenza manageriale che sappia discernere i conflitti cognitivi da quelli relazionali e li sappia trattare in modo adeguato.
In una società knowledge intensive le aziende devono costruire delle modalità di gestione delle conoscenze, e quindi delle mappe cognitive, che siano esplicitate e condivise dal management (Nonaka, 1994). Questo non significa risolvere la dimensione conflittuale, ma imparare a gestire quella parte relativa alla costruzione della conoscenza.
I conflitti relazionali
Si è finora esplorato il livello di contenuto tenendolo artificiosamente separato da quello di relazione. In realtà la comunicazione interpersonale è un processo integrato in cui il livelli di contenuto e di relazione sono intrinsecamente legati e dove i linguaggi numerico ed analogico si avviluppano intimamente.
Per acquisire competenze comunicative è però necessario essere consapevoli della presenza di questi due livelli e del loro agire.
Le mosse cognitive di fronte ad un problema possono essere diverse: propositive, descrittive, esplorative o relazionali (Fabbri, Formenti 1991).
Mentre le prime – quelle propositive, descrittive e esplorative - si muovono prevalentemente nella direzione del contenuto, l’ultima – quelle relazionali - rovescia lo scambio comunicativo ponendolo prevalentemente l’accento non sul contenuto, ma sull’equilibrio relazionale soggiacente. Già questo rovesciamento è di per sé foriero di problematicità comunicativa in quanto la prevalenza implicita nello scambio non è il merito di cui si sta trattando, ma la relazione tra i due soggetti e quindi la negoziazione di identità implicita in questa prevalenza.
D’altro canto il linguaggio cosiddetto analogico/non verbale, sovrano della dimensione relazionale, è per sua natura suscettibile di diverse interpretazione, che si ampliano nelle diversi sotto sistemi geografico - culturali esistenti. (Bombelli,1992 ,1994)
La dimensione di contenuto e quella relazionale – emotiva sono presidiate da aree cerebrali diverse. La prima dall’area corticale e la seconda da quella limbica. (Vaccani, 1994). E’ evidente che, mentre la parte razionale corticale può essere soggetta ad un maggiore controllo, quella relazionale emotiva discende da condizioni interne, spesso fuori dal controllo. Dal punto di vista individuale una maggiore consapevolezza e competenza nella gestione della dimensione emotiva può essere attuata attraverso percorsi formativi o di sviluppo individuale (Pacifico, 1995; Goleman, 1996)
Nel livello di relazione le due persone che stanno comunicando negoziano implicitamente la posizione relazionale relativa. La dimensione relazionale è di importanza capitale perché è attraverso essa che la persona costruisce ed alimenta la propria identità. Ciò che ciascuno è, la propria competenza, la propria autostima, viene continuamente negoziata, messa alla prova, come in un gioco di specchi, nella comunicazione quotidiana (Mantovani, 1995)
Le comunicazioni disturbate a questo livello, soprattutto dei contesti familiari, ma non solo, possono generare gravi patologie (Condorelli, Godstein, 1994)
L’oggetto della negoziazione relazionale riguarda in primo luogo la posizione relativa delle persone che comunicano. Esistono fondamentalmente due posizioni nella relazione una simmetrica ed un’altra complementare. Nella dimensione simmetrica i due soggetti pervengono ad un accordo di uguaglianza relativa. In quella complementare uno dei due soggetti assume una posizione one-up, mentre l’altro si posiziona a livello one-down (Watzlawick, 1971) .
Due colleghi che si avviano verso il bar discutendo di calcio presumibilmente si porranno in simmetria. Quando uno dei due rivela alcuni retroscena della partita ascoltati direttamente dall’allenatore, suo amico, è probabile si ponga in posizione one-up e questa posizione venga accettata dall’interlocutore.
Le posizioni di supremazia così descritte non sono relative ai contenuti. Certamente la presenza di uno specialista riconosciuto in un determinato campo di cui si sta discutendo, struttura prevalentemente una relazione complementare, in cui lo specialista è accettato in posizione one-up. Le posizioni che si sta cercando di descrivere sono sfumature relazionali complesse in cui prevalgono la orizzontalità, nel caso della simmetria, o la verticalità nel caso della complementarità.
Il conflitto relazionale è quindi un conflitto implicito sulla posizione assegnata, un non riconoscimento dell’altro della proposta di posizione che viene fatta da un soggetto. L’arma che viene usata in questa guerra sotterranea sono i contenuti. Se tra lo specialista di informatica e l’utilizzatore, invece di crearsi un clima di collaborazione e di reciproca fiducia, esiste una dimensione di sospetto e sfiducia, la relativa difficoltà di condivisione delle mappe cognitive viene esasperata dalla lotta relazionale in atto.
L’utilizzatore potrebbe iniziare a infastidirsi del linguaggio specialistico, utilizzato con poca attenzione all’interlocutore. In più, nella propria esperienza ha accumulato episodi di comunicazione infruttuosa con gli informatici che ora lo pone in una posizione pregiudiziale.
Ancora la persona che stiamo immaginando, ha sentito dire che il nuovo sistema informatico di cui si sta dotando l’azienda, è potenzialmente pericoloso per i singoli che vedranno diminuita la loro discrezionalità ed aumentati i carichi di lavoro.
Dal canto suo lo specialista è convinto che gli utilizzatori di quella funzione facciano poco per avvicinarsi al nuovo sistema. Hanno un’aria arrogante e sospettosa. Lo specialista non capisce perché debba sempre essere lui a fare il primo passo di disponibilità, e quindi decide di “fare il suo lavoro” dando le informazioni che ritiene necessarie e non di più.
Il conflitto relazionale, così innescato, ha pochissime possibilità di essere sciolto. Diverse le cause che concorrono alla sua nascita :
Non coerenza tra il contenuto del messaggio lanciato e il linguaggio analogico utilizzato. La frase “Ha fatto un bel lavoro!” se è accompagnata da un linguaggio non verbale incongruente, depresso o senza enfasi, può addirittura produrre un effetto negativo su chi la ascolta
.
La punteggiatura delle sequenze, in cui ciascuno dei due soggetti evidenzia il proprio comportamento come causato da quello dell’altro, sottraendosi alla responsabilità dell’esito comunicativo,
Una “mossa di apertura” di uno dei soggetti che, dando una impennata relazionale (positiva o negativa) ha fatto recedere sullo sfondo la dimensione di contenuto. Entrando in ufficio un collega può chiedere : “Non trovo il report X, l’hai visto ?” oppure può chiedere “Si può sapere dove hai messo il report X ?”. Queste due domande, a contenuto uguale, si caratterizzano per una mossa di apertura relazionale completamente diversa, e che farà scaturire una risposta relazionale altrettanto diversa dall’interlocutore oggetto di questa comunicazione, facilmente intuibile. La criticità della “mossa di apertura” consiste nel fatto che propone un assetto complementare o simmetrico inatteso per l’interlocutore, che l’altro può non accettare. La mossa successiva, inevitabilmente, invece di concentrarsi sul contenuto – il report scomparso dell’esempio – è tesa a ripristinare la relazione ritenuta corretta (Cosa ti fa pensare che io abbia nascosto il tuo report ?)
Da questo punto di vita vi sono delle impostazioni relazionali che necessariamente vengono rinegoziate: quelle che contengono una messa in stato d’accusa, quelle che contengono una denigrazione oppure quelle che contengono una minaccia. Questo è un ambito in cui si può sviluppare un particolare tipo di mobbing: se le impostazioni relazionali di cui stiamo parlando, e che sono sempre negative per coloro che ne sono oggetto, non possono essere rinegoziate per la presenza di un potere prevaricatore o di una ledearship minacciate, i soggetti si trovano in una situazione senza via d’uscita.
I conflitti relazionali dal punto di vista dei soggetti implicati sono risolvibili, solitamente comunicando di più, aumentando la trasparenza, aumentando le occasioni di scambio che possano abbattere eventuali pregiudizi relativi. Essi non si risolvono quando è in gioco “altro” rispetto ai contenuti, quando patologicamente avviene l’inversione contenuto/relazione. L’esistenza di due cordate in una scalata al potere, si avvale dei contenuti, per negoziare o guerreggiare intorno ad una relativa prevalenza. La guerra è in atto, è prevalentemente relazionale, è implicita, non se ne può parlare se non ammettendo aspetti oscuri relativi al potere.
Si può indurre trasparenza parlando della relazione stessa, esplicitando le impressioni negative che si possono aver avuto confrontandole con l’altro solo se di base esiste un minimo di fiducia nell’altro e nel contesto organizzativo.
Dopo aver cercato di definire la dimensione del conflitto relazionale ed aver individuato come può essere gestito a livello soggettivo, è necessario sottolineare come le modalità condivise da un gruppo relativamente alla gestione del rapporto contenuto /relazione, siano anche dimensioni culturali che definiscono dei tratti caratteristici di alcune organizzazioni (Malizia,1998).
In altre parole vi sono organizzazioni più sane, dove i conflitti relazionali, pur esistendo, sono mantenuti ad un livello fisiologico, e soprattutto gestiti in modo propositivo, ed organizzazioni patologiche, dove le dinamiche relazionali prendono il sopravvento sugli obiettivi dell’organizzazione stessa (Kets de Vries, 1992, 1993). E’ tipico il caso di gruppi o cordate che massimizzano gli interessi particolari o tattici, ponendo in secondo piano gli interessi complessivi dell’organizzazione.
Il clima in una organizzazione è sano quando i conflitti esistenti vengono trattati e gestiti in modo trasparente, oppure può essere patologico, ammorbante, in cui i conflitti si avviluppano in una dimensione oscura, senza possibilità di trasparenza e soluzione. E’ questa, oltre quella relativa al potere, una delle situazioni più “mobbizzanti”, in cui gli individui non riescono ad individuare strategie soggettive di gestione dei conflitti, perché si sentono all’interno di un clima complessivamente poco rassicurante.
Questa dimensione di “milieu” che potremmo definire culturale affonda le proprie radici nella storia dell’organizzazione ed in particolare nella successione degli stili di leadership adottate dai personaggi gerarchicamente importanti in quella organizzazione.
Se l’inversione contenuto / relazione che abbiamo vista essere portatrice di grandi rischi comunicativi è praticata a livello di vertice, a cascata l’organizzazione privilegerà degli stili di comunicazione implicitamente attesi, se non addirittura premiati, dai capi.
Emerge qui di conseguenza una capitale competenza manageriale che ha un duplice versante.
In primo luogo la quantità di conflitti esistenti nell’organizzazione deriva ed è alimentata dal clima complessivo, come vedremo anche nel paragrafo relativo ai valori. Il clima, se da un lato ha ardici storiche, dall’altro viene continuamente alimentato e modificato dagli stili di leadership presenti nell’organizzazione. Da questo discende che i conflitti possono essere in primo luogo prevenuti impostando dei contesti regolati attraverso sistemi operativi il più possibile chiari e il più possibile equi. Inoltre l’impostazione dello stile di leadership prevalente deve tenere conto della non residualità di questo fenomeno, e della imitazione che esso ispira.
In secondo luogo è altrettanto competenza manageriale la capacità di gestire i conflitti relazionali distinguendo, ed aiutando a distinguere, il contenuto dalla relazione, muovendosi in termini di soluzione con modalità diverse. Cognitive, nel primo caso, come si è visto precedentemente, di “manutenzione relazionale” nel secondo. Questa si esplicita nella capacità di non dimostrarsi conniventi relazionalmente con nessuna delle parti in causa
L’atteggiamento non neutrale da parte del manager, se non addirittura l’abbandonarsi a delle aperte ostilità verso alcuni segmenti o persone nell’organizzazione, porta ad aumentare un clima di sfiducia reciproca che può avere effetti devastanti sull’organizzazione.
I conflitti relazionali non sono per loro natura “plastici”, difficilmente si risolvono spontaneamente. La consapevolezza della loro presenza potrebbe portare gli attori a evidenziare maggiormente gli aspetti di contenuto e di obiettivi comuni. Un ruolo importante nei conflitti relazionali hanno i terzi esterni, ancor più se superiori gerarchici, che possono aiutare le persone all’interno del loop relazionale a prendere distanza emotiva e a considerare i reali contorni, il vero “matter” oggetto del contendere.
Maschile e femminile nella comunicazione relazionale
L’esplorazione della comunicazione come un flusso in cui sono presenti entrambi i livelli del contenuto e della relazione, ci consente di individuare un conflitto spesso presente nelle organizzazioni tra il genere femminile e quello maschile.
La dimensione di attese diverse nella comunicazione tra gli uomini e le donne è stata esplorata al di là della sua estrinsecazione nel contesto organizzativo (Tannen, 1992; Gray, 1992), nella famiglia e in generale nel rapporto tra i sessi.
Partendo da queste considerazioni è possibile osservare le dinamiche comunicative tra i generi negli ambiti lavorativi.
Le donne hanno una attenzione particolare alla relazione, sia per quanto riguarda le capacità di osservazione e quindi di gestione degli aspetti relazionali; che per quanto riguarda la sensibilità ad una relazione positiva. Non si vuole ora soffermarsi sulle cause di questo fenomeno che possono essere sia biologiche, la maternità come universo relazionale per eccellenza, che culturali, gli esempi a cui si conforma lo stile femminile. In ogni caso le dimensione duale, contenuto/relazione , intrinsecamente legata nel flusso comunicativo, lo è ancor più quando i soggetti che comunicano sono femminili.
Per gli uomini è più facile effettuare la separazione contenuto/relazione, con una maggiore capacità di concentrazione sul risultato, e sottovalutazione della relazione esistente.
Questo fenomeno pone alcuni problemi nella comunicazione tra il maschile e il femminile: diverse angolature possono arrivare a produrre conflitti.
Un primo potenziale conflitto riguarda l’interpretazione di un feedback negativo da parte dell’autorità. Per le donne è difficile separare la valutazione negativa ricevuta dalla dimensione concreta, oggettuale del compito a quella personale, relazionale. Il giudizio negativo viene vissuto come un problema personale. Da qui la difficoltà femminile, spesso sottolineata negli osservatori, di mantenere un equilibrato livello di autostima (Steinem, 1992). Questa comporta una diversa valorizzazione al maschile e al femminile di alcuni eventi aziendali quali le valutazioni di prestazione e i rapporti di comunicazione con la gerarchia.
L’enfasi relazionale fa si che le donne prevalentemente cerchino climi più cooperativi che competitivi e soprattutto ambiti affettivamente positivi.
Il versante negativo della sopravvalutazione relazione riguarda da un lato la difficoltà femminile a gestire i contenuti in quanto tali, dall’altro il tentativo, per fortuna molto raro, di utilizzare canali relazionali e quindi, nella versione iperfemminile, seduttivi nel rapporto con gerarchia.
Nei momenti di stress lavorativi gli uomini si chiudono in sé stessi, le donne cercano qualcuno con cui parlare (Gray, 1992). Questi comportamenti, entrambi legittimi in sé, diventano conflittuali quando ognuno chiede all’altro di modificare il proprio modo di essere. La conoscenza di queste modalità diverse spesso è sufficiente per comprendersi e convivere. I conflitti diventano invece irreversibili quanto qualcuno connota di “valore”, ovviamente negativo, il comportamento dell’altro. La ricerca maschile di silenzio e solitudine viene giudicata dalle donne un affronto alla propria disponibilità alla cooperazione, mentre l’aiuto verbale femminile offerto viene spesso dagli uomini giudicato un’intrusione e, soprattutto, il segnale di poca fiducia nella propria capacità di risolvere i problemi.
I conflitti di valore sono l’ultimo stadio dei conflitti: in nome dei valori si sono combattute le più feroci guerre dell’umanità ed i valori, come peraltro la concezione sociale e la posizione del maschile e del femminile, costituiscono la dimensione culturale.
I conflitti sui valori
Le organizzazioni accanto ad una serie di regole codificate e rese trasparenti, esprimono al loro interno modalità di relazione, percorsi decisori, ritualità organizzative non sono soggette a codifica, ma che si sedimentano nel tempo in modo trasversale e condiviso tra gli attori organizzativi. Queste modalità che riguardano sia percorsi cognitivi che soprattutto dimensioni simboliche, sono quelle che potremo definire culturali (Schein, 1990).
Ogni organizzazione possiede una cultura, un’anima, che attraverso i comportamenti quotidiani rende espliciti i significati più profondi condivisi dal gruppo che opera insieme. I modi di vestire, il modo di comunicare, le relazioni gerarchiche, non sono uguali in tutte le organizzazioni, bensì si sviluppano in un humus specifico che alimenta modalità condivise e diverse da altri gruppi, e quindi da altre organizzazioni. Comunicare è quindi anche un confronto sui valori (Amietta, 1995)
Le funzioni della cultura sono di mediare tra le persone e il loro ambiente, di dare senso alla realtà e di motivare gli individui indicando loro gli obiettivi verso cui tendere (Mantovani, 1998)
Ciascuna tribù, spesso inconsapevolmente, rende assoluti i propri comportamenti e tale assolutizzazione è tanto più forte e radicata, quanto il comportamento in oggetto viene “valorizzato”. Un figlio che dice le parolacce in presenza del genitore avrà una sanzione tanto più pesante quanto è giudicata grave la trasgressione in relazione ai valori - ad esempio di rispetto dell’autorità - che vigono in quella famiglia.
Il valore ha una dimensione di “verità” per colui che lo sostiene e la trasgressione al valore è grave in quanto tale.
Se si potesse tracciare il confine tra il conflitto e la guerra, i valori sono sulla linea di confine : è in nome dei valori che le persone si affrontano.
Una dimensione di conflitto che può accadere in azienda riguarda appunto l’interpretazione di un comportamento pratico alla luce del valore. Una persona molto deferente e compita può essere stridente in un ambiente molto informale e dinamico, attirando giudizi di lentezza o burocrazia derivati da un aspetto esteriore e modalità simboliche non coerenti con i valori del sistema. Analogamente un ragazzo con i capelli viola e l’orecchino può essere subito bollato come impreparato da un professore che nega la possibilità di convivenza tra un simile look e uno studio approfondito, sempre dal punto vista del valore. Queste sono le uniche spiegazioni plausibili ad un mobbing orizzontale.
Mentre, come abbiamo sottolineato, la dimensione gerarchica e di potere, quindi verticale, contiene potenzialmente una difficoltà di rapporto e di negoziazione dovuta alla disparità intrinseca delle due posizioni; è più difficile nella pratica organizzativa incontrare fenomeni di isolamento e di aggressività verso un soggetto da parte di altre persone a lui simmetriche. Difficilmente le persone si coalizzano contro qualcuno, sviluppando dei comportamenti simili a quelli osservati tra gli animali che hanno dato origine al termine mobbing. Questo accade quando vi sono dei comportamenti da parte di qualche soggetto non accettati dal gruppo perché esterni alle regole implicite che il gruppo stesso si è dato.
Questo fenomeno ha una radice di valore: si isola l’individuo non omogeneo rispetto ai comportamenti attesi dal gruppo. Va da sé che esistono culture aperte e chiuse, le prime in cui in cui vengono accettate trasgressioni ai valori dominanti, le seconde – e possono essere anche imprese di grande successo – in cui prevale l’uniformazione ad alcuni valori forti e non vengono accettate trasgressioni
Gli aspetti di valore che stiamo sottolineando sono delle deduzioni che si traggono dai comportamenti soggettivi, in particolare dal linguaggio analogico e simbolico utilizzato. Come abbiamo già osservato precedentemente, il linguaggio analogico, prevalentemente operante all’interno del contesto relazionale, è soggetto a traduzione continua (Watzlawick, 1971). Esso contiene anche una dimensione simbolica che, come abbiamo visto, definisce la posizione up o down dei soggetti che stanno comunicando. L’interpretazione di questi linguaggi è sempre problematica in quanto molto ampia e soggettiva. La dimensione potenzialmente conflittuale delle modalità analogiche viene evidenziata nei rapporti tra culture diverse. La gestualità eccessiva di un mediterraneo può mettere a disagio un nord europeo che la traduce, nei suoi canoni culturali, come scompostezza e maleducazione.
Viceversa il sorriso sempre presente sul viso di un negoziatore giapponese non esprime un accordo sui contenuti, come potrebbe dedurre un europeo, bensì l’educazione necessaria in un rapporto di lavoro.
E’ allora necessario comprendere che esistono delle dimensioni culturali della comunicazione che devono essere comprese e interpretate prima di essere giudicate nell’ottica del valore.
La dimensione culturale che stiamo descrivendo può dare origine anche ad altri tipi di conflitti, o meglio di barriere di comunicazione che affondano le proprie radici nella dimensione del valore.
In una organizzazione non profit spesso le persone non hanno il denaro come una delle priorità della loro vita. Questo atteggiamento diffuso di relativa indifferenza nei confronti dei soldi - giudicato valore positivo dalla tribù - può portare ad una sottovalutazione degli aspetti amministrativi, di rendicontazione, di budget, giudicati come una perdita di tempo rispetto al servizio erogato, vero nocciolo motivazionale. Questa visione diffusa - soprattutto se avvallata a livello di vertice - potrà portare a dei conflitti personali con i ruoli gestionali o amministrativi, visti come portatori di valori negativi e contrari all’interesse comune.
Come è intuibile i conflitti valoriali sono i più difficili da trattare in assoluto.
Alla loro soluzione concorrono diversi aspetti: in primo luogo la capacità manageriale e organizzativa di comprendersi come contesto culturale Questa capacità potrebbe essere “strumento, veicolo, mezzo di comprensione e di espressione del numero infinito di possibili eventi che si offrono all’esperienza umana, individuale e collettiva” (Bodega, 1997 pag. 160). Nella prospettiva della gestione dei conflitti a questa consapevolezza si aggiunge la capacità di gestire le pluralità, la dimensione “polifonica, persino disarmonica” della cultura, attenta a scoprire le “tracce, la ambiguità, le contingenze, i frammenti” (Geertz, 1995)
La competenza organizzativa di gestione della dimensione valoriale, può essere vista da un lato come capacità di esplicitare i valori portanti dell’organizzazione, sui quali cercare il consenso e l’adesione ad esempio customer satisfaction, etica negli affari, etc., dall’altro come allargamento dei “limiti di accettabilità” sociale sulle dimensioni simboliche non pertinenti agli obiettivi organizzativi.
Dal punto di vista dei soggetti le difficoltà legate alla trattazione dei conflitti di valore e di relazione sono difficoltà essenzialmente emotive. In questi ambiti spesso non si ha la lucidità razionale di identificare il vero problema in gioco, ma si può essere accecati dalla rabbia, dalla frustrazione o dal risentimento.
La gestione di questi aspetti è naturalmente differenziata a seconda della maturità e dell’equilibrio delle diverse persone. Una riflessione di sfondo che può valere in momenti conflittuali particolarmente emotivi è di attendere quando la situazione si è, per così dire, “raffreddata”. In questo modo è più facile ritrovare il contenuto realmente soggiacente e riuscire a trattarlo.
Infine gli aspetti emotivi sono più facilmente gestibili da persone esterne al conflitto che possono avere la distanza sufficiente per aiutare le persone coinvolte a destreggiarsi nella propria emotività. E’ questo un ruolo che può essere assunto dalla gerarchia in presenza di un conflitto tra due collaboratori.
Conclusioni
L’osservazione e l’interpretazione dei conflitti è importante per trovare delle corrette strade di soluzione. Come abbiamo avuto modo di sottolineare vi sono organizzazioni potenzialmente più conflittuali di altre. Luoghi di lavoro dove l’integrazione tra le diverse posizioni è relativamente facile, dove i task sono semplici, non hanno nella gestione dei confitti un tratto peculiare. Viceversa le organizzazioni piatte e snelle, dove i processi orizzontali hanno una grande importanza, se diventano preda di conflitti interni, rischiano un decadimento sostanziale di efficacia e di efficienza.
Quindi una competenza manageriale importante riguarda la capacità diagnostica rispetto alla propria situazione organizzativa e una conseguente abilità di gestione dei conflitti in relazione alla tipologia di obiettivi e di contesto.
La prima tesi sostenuta in questo lavoro riguarda la dimensione organizzativa come “indispensabile” (Jaques, 1991) alla prevenzione e alla cura dei conflitti. La trasparenza garantita da sistemi operativi corretti, il disegno articolato della struttura, e soprattutto la manutenzione nel tempo di questi aspetti alla luce dei risultati, aiuta le persone a riconoscersi come attori organizzativi e ad identificare i confini delle loro competenze.
In secondo luogo ci si è addentrati nell’organizzazione come sistema cognitivo in cui convivono e devono integrarsi diverse conoscenze. La metafora della mappa può aiutare a comprendere la natura degli eventuali gap cognitivi, di informazione, di classificazione o di diagnosi causali. Competenze diffuse nell’organizzazione dovranno essere quelle di riconoscere le proprie mappe mentali e quelle altrui in relazione ai task organizzativi richiesti. In tendenza sarà una competenza questa sempre più necessaria vista la profondità di conoscenze sia scientifiche che organizzative, richieste dalle imprese del futuro.
Infine abbiamo osservato la dimensione culturale del conflitto. Alla consapevolezza della dimensione culturale come pregnante per la comprensione organizzativa, non sempre si accompagnano comportamenti conseguenti. Vi è una contraddizione per quanto riguarda i valori e la relativa dimensione conflittuale: da un lato sempre più organizzazioni individuano nei valori un pilastro importante sul quale costruire la propria identità, dall’altro lo scontro tra i valori può essere oggetto di conflitti disastrosi.
Si può concludere che è possibile sanare questa contraddizione utilizzando i valori in senso esplicito e quindi chiedendo adesione alle persone in modo aperto. D’altro canto è utile anche allargare gli spazi di convivenza valoriale, e quindi di tolleranza, su aspetti marginali, esclusivamente simbolici e poco pertinenti ai risultati.
Ad esempio se in una azienda si lavora molto oltre i limiti di orario questa consuetudine sarà indubbiamente sostenuta da una valorizzazione positiva di questo comportamento da parte dei vertici aziendali come simbolo di fedeltà all’organizzazione. Se d’altra parte uno dei valori aziendali proclamati consiste nella capacità di soluzione dei problemi e nella concretezza, sarà utile, attraverso l’utilizzo di appropriate modalità di valutazione di prestazione, riorientare la cultura prevalente verso la dimensione fattuale concreta della prestazione, ponendo in secondo piano la fedeltà e il suo simbolo di estrinsecazione, il tempo dedicato.
In questo senso la cultura organizzativa è prioritariamente collegata ai comportamenti delle persone situate al vertice dell’organizzazione. E’ questa una consapevolezza importante : sapere che i propri comportamenti “fanno scuola” dovrebbe aiutare a sviluppare una competenza relazionale come base per l’azione manageriale. Il comportamento organizzativo, la capacità di comunicazione e di gestione dei conflitti sono skills manageriali di primaria importanza e come tali potrebbero essere riconosciute sia nella mappatura delle competenze che nelle analisi di eventuale fabbisogno formativo o di sviluppo personale. Da queste considerazioni è possibile comprendere come un clima organizzativo caratterizzato dalla fiducia può essere parte importante del valore di una impresa (Vicari, 1997).
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