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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Intervista a Margaret Heffernan

Leggere Margaret Heffernan è piacevole. Si coglie nel suo libro che ha una grande esperienza e ha condiviso i suoi pensieri con molte donne, prima di metterli nero su bianco. Ma incontrarla ed assistere ad una sua conferenza, è ancora meglio.


Parla con estrema lucidità e proprietà di linguaggio. Racconta ciò che ha scritto in modo ancora più accattivante e le due ore passano senza accorgersi.


Tra i diversi spunti che riesce a fornire, due mi sembrano colpire particolarmente l’uditorio femminile della Professional Women Association che la stanno seguendo.

Sono due aspetti rivolti proprio alle donne, che non indulgono ai meccanismi di discriminazione esterni, prodotti dalla cultura maschile, ma vogliono contribuire ad aumentare la consapevolezza di alcuni limiti che le donne hanno e che contribuiscono ad escluderle dall’olimpo del potere organizzativo.


Questa è la scelta che Heffernan fa, sia nella presentazione pubblica che nell’intervista successiva. Nel libro invece molti sono gli spunti su quanto la cultura organizzativa sia ancora maschile e su quali siano i momenti topici dell’esclusione.


Un tema non esclude l’altro dunque, ma la scelta di privilegiarne uno è forse legata al tentativo di rendere maggiormente le donne consapevoli di quanto possono fare, dal canto loro, per superare una situazione che si protrae da troppo tempo.


Il primo aspetto al femminile che la Heffernan descrive riguarda gli stadi che molte donne attraversano nel loro percorso verso la parte superiore degli organigrammi aziendali. Si può prendere questo percorso come spunto per riflettere o come provocazione, ma è facile rintracciarlo nella vita quotidiana di diverse manager.


Parla di quattro fasi spesso in sequenza, ma che possono anche rimanere per sempre nel copione preferito da ogni donna.


Il primo è quello della geisha. Con questa rappresentazione si vuole intendere una relazione in parte seduttiva e in condiscendente che caratterizza donne spesso giovani e non troppo sicure di sé nel lavoro. E’ abbastanza normale che una giovane, neo inserita nel mondo del lavoro, si ponga in una posizione interlocutoria, di apprendimento umile, ma quando questo atteggiamento si accompagna a modalità femminili tradizionali, si rischia di congelare uno stereotipo di donna decorativa, ma marginale.


Si tratta di una fase appunto, perché molte donne, acquisita una certa maturità professionale, si rendono conto del rischio contenuto in questo modello e cauterizzano la propria femminilità attraverso un travestimento simbolico e comportamentale. Spariscono i capelli lunghi, i tacchi alti, le tracce troppo accese dell’essere donne e si diventa donne invisibili. Totalmente dedite al lavoro, poco orientate a chiedere e negoziare per sé, queste donne costituiscono, a mio parere, “l’esercito di riserva” delle organizzazioni. Sono quelle lavoratrici indefesse su cui si può sempre contare, quelle che con pochi frizzi e lazzi, portano a casa i risultati.


Ma anche questa situazione, se si congela, non è piacevole. L’invisibilità protratta è esasperante e molte donne si arrabbiano.


E’ a questo punto che, alcune, entrano nella fase cattiva della loro carriera e iniziano a fare le “stronze”. Anche questo è un archetipo perfettamente rintracciabile sui palcoscenici lavorativi. Agguerrite, determinate, non perdono l’occasione di dire quello che pensano, purtroppo senza averci pensato molto, confondendo la maleducazione con la schiettezza e la aggressività con la trasparenza. Hanno capito il gioco maschile, in parte lo hanno anche apprezzato, e si buttano nel campo a corpo morto.


La Heffernan descrive queste fasi attraverso l’esperienza personale e, in quest’ultima, narra gustosi episodi di lotta maschile, come la trattativa sindacale svolta in un ristorante cinese, dove il suo interlocutore le proponeva piatti improbabili per un occidentale, per misurare le sua resistenza e la sua tenacia.


“Per anni – racconta – ho descritto questo episodio con orgoglio. Per dimostrare quanto ero stata brava a competere e a vincere”.


Poi, un giorno, nel silenzio di un viaggio aereo solitario, ha avuto una specie di rivelazione. Era stato un episodio davvero degno di nota, oppure aveva solo giocato con le regole di un altro mondo, senza accorgersene?


Da qui un altro stadio, forse l’ultimo di una carriera che è stata, misurata con il metro del successo professionale, strabiliante: diventare sé stessa.


In tutto questo percorso, dice Heffernan, si rischia di dimenticare il nucleo più profondo del proprio sé, che invece va ricercato e messo in comunicazione con qualsiasi strategia personale e professionale.


Essere sé stesse non è facile perché non c’è un modello preconfezionato da scuola di management. Bisogna fare i conti con la propria storia, e decidere cosa fare da grandi.


Alla fine dell’intervista un’ultima richiesta di Margaret Heffernan: che le donne smettano di parlare male una delle altre. Non è necessaria la “sorellanza”, si può dissentire relativamente ai contenuti, ma senza infierire e senza rischiare che il perfezionismo femminile si trasformi in un gioco perverso di denigrazione.


Riducendo le critiche, o trasformandole in supporto, sarà più facile, per tutte le donne, fare carriera.


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