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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Il Job Hopping: L’indifferenza all’azienda del personale cinese

Con Alessandro Arduino



Il fenomeno


Con job hopping si denomina sinteticamente la tendenza individuale a cambiare con frequenza il posto di lavoro, lasciandosi alla spalle in rapida sequenza una azienda dietro l’altra. Questa propensione soggettiva si traduce in un elevato turnover del personale dal punto di vista organizzativo. La sola citta’ di Shanghai, ad esempio, offre 600.000 nuovi posti di lavoro l’anno.


Questo fenomeno, evidentemente espressione di un mercato del lavoro dove le persone vengono contese, sembrava esclusivo appannaggio dei paesi industrializzati. Di job hopping, ad esempio, si è iniziato a parlare in particolare nella Silicon Valley, legato alla knowledge economy, che si contendeva, perlomeno nel recente passato, i cosiddetti “talenti”. Qualche ricercatore ha anche sottolineato come esso sia stato, nella valle americana della tecnologia, un contributo all’innovazione, sviluppando una capillare ed osmotica disseminazione delle intelligenze (Postrel, 2005).


Dal punto di vista aziendale, in particolar modo a livello di quadri e manager, il job hopping costituisce una problematica di gestione decisamente rilevante. Le risorse spese per formare una persona in termini di tempo, di training e di socializzazione sono notevoli. In momenti di espansione economica e di sviluppo, la perdita di persone su cui si è puntato ha spesso anche risvolti di natura psicologica, di sensazione di tradimento non solo giuridico, ma anche di gentleman agreement.


Il fenomeno del “salto” in tempi brevi tra due impieghi sta diventando un elemento prioritario nei processi di gestione del personale in Cina. Nelle città che si stanno più rapidamente sviluppando, come Shenzhen, Pechino, Canton, e soprattutto Shanghai, esso sta assumendo una dimensione tale da costituire causa primaria e strutturale di cattivi risultati di gestione od addirittura di fallimento aziendale.


Il caso cinese assurge alla massima espressione del problema per le peculiarità che esso esprime: da un lato i tempi ristretti che caratterizzano il passaggio da un impiego all’altro, una dimensione quindi quantitativa del fenomeno, dall’altro le figure professionali che ad esso sono interessate, non più e non solo di livello gerarchico medio basso e quindi decisamente fungibili nel mercato del lavoro, ma anche sempre più figure manageriali e tecnici specializzati solitamente meno coinvolti nel processo, con una caratterizzazione qualitativa di natura specifica.


Il tema del job hopping, a nostro parere, è un elemento molto interessante da studiare in quanto rappresenta una sorta di punta dell’iceberg di una serie di processi causali di natura generale radicati nello sviluppo tumultuoso e contraddittorio della Cina e di percorsi di apprendimento di natura gestionale della singola azienda che non hanno ancora trovato una espressione teorica e un radicamento pratico.


Dal punto di vista complessivo l’economia cinese esprime l’antinomia di essere contemporaneamente ancora in via di sviluppo, ma già affetta da problematiche tipiche dei paesi sviluppati, quali la crescita demografica e invecchiamento precoce della popolazione. Ad oggi il 68% della popolazione cinese risulta in eta’ lavorativa ma il picco che segnera’ l’inizio del calo demografico dovrebbe gia’ presentarsi tra il 2008 ed il 2010.

Sembrerebbe paradossale parlare di carenza di personale in un paese dove la pressione dei disoccupati dalle campagne verso le citta’ forma un flusso costante di persone che raggiungono le aziende fornendo manodopera a basso prezzo anche se non qualificata. Analogamente le ristrutturazioni delle aziende statali ed il conseguente ammodernamento dell’amministrazione pubblica hanno generato un’eccedenza di 31 milioni di impiegati solo alla fine degli anni 90. Un esercito di riserva che bene si coglie dalla rappresentazione grafica dello spostamento interno ai settori economici sotto riportata


(fonte: China Statistical Yearbook 2004)


Ad oggi il tasso di disoccupazione si e’ stabilizzato nel 2003 e 2004 rispettivamente al 4.3% ed al 4.2% nelle aree urbane con un incremento al 4,7% previsto per la fine del 2005. Questo dato ha diverse cause tra loro concomitanti.

Da un lato bisogna tener conto dei 36 milioni di posti generati dal settore privato dal 1996 al 2003, dall’altro il passaggio dal 60.1% di impieghi nelle campagne dal 1990 al 49.1% del 2003 e’ da imputare sostanzialmente alla riforma dell’hukou (permesso di residenza). Esso è strettamente correlato al libretto di residenza (hukou ben) dove vengono annotati dagli uffici di polizia distrettuali tutti i componenti del nucleo familiare e che consente sia il controllo delle nascite che il riscontro della mobilità personale, in quanto senza preventiva autorizzazione di trasferimento non e’ possibile trovare impiego presso una localita’ diversa da quella in cui si e’ registrati. La riforma del 1990, dettata dalla forte richiesta di manodopera per le nascenti imprese private, ha reso piu’ flessibili le modalita’ di cambiamento di residenza e di ottenimento di permessi temporanei di lavoro in localita’ differenti dal proprio hukou, in particolar modo nelle zone speciali di sviluppo economico (Kai Faqu) .


A queste dinamiche occupazionali si legano in modo diretto le modifiche del reddito pro capite che nell’industria e nei servizi subisce un continuo e progressivo innalzamento, mentre rimane sostanzialmente stabile nelle campagne.





Divario città /campagne reddito annuo procapite espersso in Yuan

( fonte: China Statistical Yearbook 2005)


La stessa distribuzione del reddito oltre a sottolineare il gap tra popolazione urbana e rurale lancia l’allarmante grido del notevole aumento del divario tra benestanti e meno abbienti come confermato dall’analisi del coefficiente Gini, da un 0.33 del 1980 ad un preoccupante 0.51 del 2003:




L’aumento degli stessi salari ha seguito crescite fortemente differenziate, nella fattispecie (es.nel 2003):


Settore rurale: +5.75%

Settore urbano non specializzato: +13.3%

Settore urbano specializzato: +28.2%




A completamento di questo quadro economico generale alcuni dati relativi alle dinamiche dell’occupazione di seguito riportati, possono aiutare a meglio comprendere quali le dinamiche oggi esistenti nelle zone ad altra intensità di sviluppo della Cina.

Negli ultimi 5 anni 45.000 laureati cinesi all’estero sono ritornati a lavorare a Shanghai. Prima del 2000 almeno il 75% dei diplomati cinesi negli Stati Uniti (Masters o PhDs) rimaneva negli USA a lavorare.

Dal 2002 si è verificata una inversione di tendenza del brain drain da parte degli USA di laureati cinesi nei campi legati all’ITC.


Inoltre l’innalzamento del livello di istruzione perseguito durante il periodo maoista ha elevato sin dalla fine degli anni 50’ il livello di alfabetizzazione della popolazione puntando maggiormente sull’istruzione primaria. In questo caso la Cina ha sempre mostrato una percentuale della popolazione con una cultura e capacita’ di base superiore alle altre societa’ in via di sviluppo. Ad esempio l’analfabetismo in India nel 2003 toccava quasi il 30% della popolazione contro il 12% della Cina.


In questo quadro di natura generale si inserisce il tema occupazionale specifico, oggetto del presente lavoro. Un sondaggio condotto nel 2004 da Watson Wyatt Worldwide ha messo in luce che il tasso di turn over del personale a livello manageriale è del 13,2% a Shanghai seguito dal 12.5% di Shenzhen, 10.6% di Pechino e 10.3% di Canton. Il trend non solo sottolinea la gravita’ del problema in termini assoluti, ma mette in evidenza una tendenza alla crescita continua ed incessante nel corso degli anni. Se si collegano questi dati con quelli di crescita del PIL annuo delle singole citta’ si può notare una correlazione tra l’aumento della ricchezza prodotta e la propensione dei manager di “saltare” da un impiego ad un’altro. Entrambe le curve di crescita dei due fattori sembrerebbero quindi direttamente proporzionali agli aumenti vertiginosi degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) in Cina.


Nella sola Shanghai il tempo medio di permanenza per un impiegato di alto livello è di 2.5 anni rispetto ai 4 anni di “fedeltà aziendale” negli Stati Uniti; già considerati un lasso di tempo brevissimo solo pochi anni or sono.


Il fenomeno non è esattamente quantificabile: diversi enti statali e società di ricerca private internazionali pur convergendo nella descrizione della tendenza complessiva, non sono in grado di fornire delle percentuali attendibili del Job Hopping. Chiara però è la tendenza progressiva che rende unanime il grido d’allarme sull’inevitabile intensificarsi del problema.


La carenza di professionisti locali, dai tecnici specializzati ai manager con esperienza internazionale è ulteriormente esasperata da altri tre fattori concomitanti. Oltre alla già accennata crescita degli IDE e all’invecchiamento precoce della popolazione bisogna considerare che la Cina ha già attinto abbondantemente alle risorse di personale durante la crescita del PIL a due cifre degli anni passati. Ad essi si lega il gap generazionale per i manager cresciuti durante la rivoluzione culturale la cui formazione tende a prediligere le SOEs, le aziende totalmente gestite dallo Stato, a scapito di impieghi piu’ remunerativi, ma ritenuti rischiosi, poiché legati ad un sistema di premio egualitario e focalizzato al gruppo, piuttosto che una spinta meritocratica legata alle azioni del singolo.


A questo quadro già complesso si assommano i problemi generati da una economia globalizzata ad alto valore tecnologico che impone costanti adeguamenti di knowledge e un conseguente aggiornamento del personale.


La volontà di cambiare lavoro per un incremento minimo del proprio salario è sempre stato un problema nelle aziende cinesi a partire dalla politica di apertura delle zone di sviluppo economico preferenziale attuata dalla fine degli anni ‘80. Allora il problema era legato quasi esclusivamente agli operai ed agli impiegati e ristretto ad un mercato del lavoro localizzato alle sole zone costiere della Cina, con particolare riferimento al bacino dello Yangtze e provincia del Guangdong. Dagli anni ‘90 con un incremento esponenziale degli IDE che vedono la Cina la primo posto nel mondo come destinataria e con la finalizzazione di questi investimenti sempre più verso Wholly Owned Foreign Enterprises (WOFE) che non alle Joint Ventures (JV), la richiesta di segmenti manageriali intermedi si è innalzata, senza trovare una risposta adeguata anche in virtù della scarsità di manager espatriati con precedente esperienza sulla Cina.


Rimane aperta, dal punto di vista soggettivo, la ricerca delle motivazioni ad un job hopping così rilevante. La prima e consueta lettura è ovviamente di natura economica. I giovani manager e tecnici cinesi, corteggiati da aziende in rapida crescita, cercano di massimizzare il loro tornaconto in termini quantitativi. E’ una lettura che ben si sposa con la mitologia ormai molto diffusa di manager rampanti e sempre più remunerati, chiamati con neologismo i Chuppie ( Chinese Yuppie), che non hanno altro obiettivo che una carriera facile e veloce.


Alcuni sondaggi però attutiscono questa prima impressione. Waldkirck (2004), ad esempio, articola diverse cause oltre a quelle citate, sottolineando anche le incomprensioni di natura culturale. Inoltre una ricerca condotta da George B. Graen, professore alla Luisiana e alla Dong Hua University a Shanghai su 155 MBA ha riscontrato come il 48 % dei diplomati Master aveva lasciato il lavoro nei 5 anni successivi all’inserimento lavorativo per motivi di carriera, ma ben il 24% per incomprensioni culturali con i manager stranieri (China Daily, settembre 2004).



Affrontare il problema


La retention costituisce sempre un elemento critico nella gestione del personale in tutti i contesti. Il tema è diventato sempre più importante nella letteratura e nella pratica manageriale in relazione alla consapevolezza che le persone costituiscono una risorsa critica nel raggiungimento degli obiettivi (Barney, 1991). La criticità è tanto maggiore quando è difficile trovare persone, ovvero in situazioni di piena occupazione, oppure quando le competenze richieste sono particolari, di nicchia, o con un elevato knowledge. A questo si aggiunge che l’equilibrio organizzativo di integrazione tra le diverse parti dell’azienda e tra le persone che la compongono, si raggiunge consolidando lentamente una cultura comune che diventa elemento caratterizzante. Da queste premesse si coglie quanto la propensione delle persone a cambiare rapidamente lavoro possa costituire un problema manageriale di primaria importanza.

Il fenomeno costituisce una grave incertezza sia per le grandi imprese che per le PMI, pur con caratteristiche diverse. Per quanto concerne le piccole e medie imprese formare un tecnico o un direttore delle vendite cinese in Italia per poi vederlo cambiare lavoro a pochi mesi dal ritorno in Cina è non solo un’esperienza scioccante dal punto di vista culturale, ma anche una grave perdita di investimento dal punto di vista economico.


Oltre alla perdita di tempo e di denaro che l’evento produce, innesca anche un rallentamento del progetto di sviluppo della filiale cinese dovuta alla mancanza di personale qualificato. Nel contempo nelle grandi aziende, che hanno più risorse in eccedenza per sviluppare un core business mantenendo inalterata la qualita’ del servizio o del prodotto, il rapido ricambio del personale dirigenziale contribuisce a generare un clima organizzativo caratterizzato dal malcontento e soprattutto dalla sfiducia. Un clima che influenza l’impegno generale dei collaboratori nel sintonizzarsi con gli obiettivi aziendali. L’elevato turnover delle figure manageriali lascia un vuoto di leadership, elemento indispensabile per creare una focalizzazione aziendale verso una visione ed un obiettivo finale condiviso. La conseguenza di questo processo è che le persone impiegate ai diversi livelli vedono legittimati comportamenti di deresponsabilizzazione e scarsa fedeltà.


Nonostante la chiara evidenza della problematicità del tema, l’elevata incidenza quantitativa del job hopping precedentemente descritta dimostra come le imprese non abbiano probabilmente ancora trovato efficaci strategie di contenimento.


E’ interessante sottolineare da questo punto di vista una sorta di ambivalenza nei processi di delocalizzazione. Da un lato la scelta del territorio cinese avviene proprio perché il costo della manodopera è estremamente inferiore a quello dei paesi d’origine, e quindi il personale viene ritenuto un fattore critico nella scelta, dall’altro non si sviluppano modelli di gestione accurati che prevedano una serie di criticità di cui il job hopping è solo l’apice.


Il problema descritto probabilmente non avrà ripercussione sui dati aggregati quali la crescita del PIL nazionale cinese stimata all’8.5% per il 2006, ma dal punto di vista della singola azienda, la scarsa attitudine verso una corretta e preveggente gestione delle risorse umane, specialmente nel caso di una piccola e media impresa, puo’ avere gravissime ripercussioni. Molte società, PMI italiane in particolar modo, hanno affrontato con leggerezza questo aspetto manageriale, vedendo così le figure chiave, quali direttori di filiali e tecnici specializzati, “sparire “ subito dopo aver completato la formazione in Italia, per poi “riapparire” presso societa’ concorrenti, sia cinesi che internazionali per un minimo incremento salariale.


Nel contempo il continuo movimento delle figure direttive, oltre a creare il gia’ sopracitato senso di sfiducia nei confronti dell’azienda genera anche il crescere di aspettative salariali sovradimensionate. Lo stesso divario tra stipendi per espatriati e salari per manager locali risulta in un fattore destabilizzante nelle aspettative a breve e medio termine, nonché nel processo di localizzazione delle attivita’ operative.


All’interno quindi di un quadro aziendale complessivo che non appare caratterizzato da particolari innovazioni, si intendono distinguere alcune buone prassi che possono costituire un utile elemento di riflessione utile per articolare altre e più complessive possibili strategie.


Le strategie messe in atto da alcune aziende, che più di altre hanno tentato di affrontare il problema, si possono classificare secondo alcuni filoni sotto riportati. E’ però necessario sottolineare, come premessa, che pochi dei casi analizzati utilizzano un’unica strada tra quelle delineate. Nelle diverse realtà si costruisce un mix di soluzioni che può variare a seconda delle situazioni e dei momenti nel ciclo di vita dell’impresa.


Lo schema vuole quindi esplicitare delle possibili filosofie soggiacenti ai diversi strumenti e i vantaggi / svantaggi derivati da ciascuna. Con questa premessa i casi citati non esauriscono le loro politiche del personale negli esempi descritti.




Sistema premiante di breve periodo: aumenti salariali e differimento dei premi


La strategia più immediata è quella del rilancio salariale, che nel breve consente di acquisire le risorse, ma nel medio lungo periodo diventa causa del fenomeno in esame.


In realtà la situazione non è così nettamente valutabile come negativa.

Esperienza, ad esempio, della jv Inghirami è di aver sviluppato fin dai primi anni ’90, una situazione di salari leggermente più alti della media, che hanno consentito di fidelizzare in modo strategico un discreto numero di manager e di tecnici, e soprattutto di personale specializzato nella produzione tessile di qualità. Interessante il punto di vista di questa azienda che, voce fuori dal coro, ritiene il personale operaio con queste caratteristiche di più difficile reperimento rispetto ad alcune figure manageriali, e quindi sul quale è necessario decisamente mantenere, rispetto alle aziende limitrofe, un vantaggio di posizionamento.


Generalizzando le interviste raccolte si può dire che la leva salariale è prevalentemente usata nelle posizioni manageriali, mentre per le posizioni operaie.


Un'altra strategia utilizzata è quella che si potrebbe definire del “differimento” del premio.

In questo caso si divide il salario che si potrebbe definire di base, che viene erogato con cadenza mensile, da un sostanzioso bonus che viene invece elargito una volta all’anno e solo nel caso non si lasci l’azienda.

Il vantaggio di questa operazione è che le persone vengono incentivate a non lasciare l’azienda in vista del premio finale, ma lo svantaggio è che questa prassi operativa porta con sé il condensare in una parte dell’anno, prevalentemente il periodo seguente al capodanno lunare cinese, la maggior parte del job hopping con conseguenze piuttosto rilevanti nella gestione per personale .

E’evidente che questo tipo di scelta, non ha prevalentemente lo scopo di arginare il job hopping, ma anche di prevedere a priori un periodo dell’anno focalizzato al reclutamento e alla selezione.



Leva geografica

Un metodo utilizzato per trattenere i tecnici delle posizioni chiave legate a processi di produzione specializzati, oltre i managers che generalmente godono di stipendi competitivi, e’ quello di assumere e formare personale avente un’origine geografica differente da quella in cui sorge lo stabilimento. “Importando” il personale da un’altra provincia si crea un nucleo di impiegati che parlano un dialetto completamente differente da quello locale. Questa omogeneità linguistica e culturale favorisce inoltre la creazione di relazione più solide a lungo termine, rispetto a quelle da “melting pot”. La scelta viene preferita a quella della realtà locale in cui gli attori sono supportati da vincoli di sicurezza familiari e quindi liberi di muoversi in un contesto noto.


Questa strategia mette in luce un dato che spesso sfugge agli occidentali, ovvero la grande complessità e diversificazione del territorio cinese.

E’ uno dei miti sottolineati da Chee e West (2004) che andrebbero sfatati nei rapporti con questo grande paese. Per meglio comprenderlo è necessario sottolineare, ancora una volta, una contraddizione. Da un lato la Cina è stata forse il primo paese di dimensioni straordinarie ad unificare la lingua. Due le pietre miliari che si possono ricordare. La prima la scelta, al tempo stesso visionaria e discutibile, dell’imperatore Qin Shi Huangdi, di unificare la lingua e di mettere al rogo tutti libri scritti prima del suo regno (221 – 206 ac). Da quel tempo lontano inizia un’unificazione della lingua scritta che ha consentito uno scambio parallelo alla miriade di dialetti dell’immenso paese. A questo si aggiunge la scelta di unificare lo scarto delle ruote dei carri per permettere di percorrere con facilità tutte le parti del paese.


L’altra grande dimensione unificante è rintracciabile nella lingua dei funzionari (guanhua). “Questa lingua franca, specifica applicazione in campo burocratico di una variante colta del dialetto settentrionale, venne impiegata diffusamente, a fini amministrativi, a partire dal XV secolo” (Abbiati, 1992). Parallelamente a questa unificazione della lingua scritta che consente l’amministrazione e lo scambio tra le classi colte, rimane una estesa quantità di varianti e di dialetti che sopravvivono nelle comunità locali, ma soprattutto che possono diventare una barriera insormontabile nelle classi poco scolarizzate.


A fronte di queste considerazioni è facile comprendere come il mantenimento nei reparti produttivi di persone omogenee dal punto di vista della provenienza raggiunge due scopi. Il primo, se la zona di origine è distante logisticamente, di rendere meno frequenti i rientri con le relativi tentazioni di non ritorno. Il secondo, come già sottolineato, di creare un gruppo omogeneo anche dal punto di vista culturale, e quindi di accelerare processi di integrazione e identificazione.


La citata differenza culturale è rintracciabile anche nella propensione ad job hopping. Ad esempio, a parere di molti degli intervistati, tra il personale che “salta” con maggiore frequenza vanno annoverati i manager di Shanghai che, se non percepiscono la possibilità di incrementi annui di salario e di potenziali avanzamenti di carriera, tendono ad usufruire della formazione presso un’aziende italiana come trampolino per un futuro avanzamento presso un’azienda che cerchi managers con esperienze internazionali, magari sopravvalutando le proprie reali competenze.


Una scelta conseguente è che nella convinzione di chi gestisce le risorse umane nell’area di Shanghai, risulta più opportuno formare e prediligere l’avanzamento di figure professionali non “shanghaiesizate” in modo da incrementare maggiormente la possibilita’ di retention del personale.

In questo momento specifico della vita cinese è bene tenere presente che qualsiasi tipo di certificazione o qualifica ottenuto tramite una permanenza all’estero diviene automaticamente, nella mentalità diffusa, un credito da poter spendere per un incremento salariale presso un nuovo datore di lavoro.



Sistema premiante di lungo periodo teso alla fidelizzazione e integrazione culturale


Se queste sono le dinamiche che le aziende si trovano ad affrontare nelle realtà ad alto sviluppo della Cina, come quelle costiere, non rimane che partire dalla loro osservazione attenta per individuare le migliori strategie di gestione.


Alcuni intervistati sottolineano come questa sia una modalità normale di management e che il contesto cinese non fa che enfatizzare problemi di retention applicabili, pur con le dovute distinzioni, a tutte le realtà aziendali.


Ad esempio Roy Muscarella, CEO di Prismyan già Pirelli Cavi per Telecomunicazioni, è convinto che bisogna dare per scontata la possibilità che il personale sfrutterà la propria esperienza con una Joint Venture straniera per saltare da un posto all’altro. Ha quindi puntato, per quelle risorse valutate come ad alto potenziale, oggetto di investimento in know-how oppure meritevoli di interesse per la qualità del lavoro prodotto, sul rapporto collboratore/azienda percorrendo la strada della motivazione e del coinvolgimento.


Altro personale viene valutato come potenzialmente costantemente in uscita per cui ha pianificato in tutti i reparti aziendali piani e valutazioni sulle risorse tali da garantire un immediato rimpiazzo del personale che si dimette. “Non vedo” - sostiene Muscarella – “grande differenza con i metodi che utilizzerei in altre realtà. Coinvolgere le persone chiave nella condivisione degli obbiettivi aziendali, non solo attraverso incentivi economici, dando loro una gratificazione simbolica in termini di ruolo, evidenziando in modo visibile il contributo soggettivo alla crescita della Società. Modalità descritte da tempo nella teoria manageriale. Per la mia esperienza meglio ancora se il leader conquista la fiducia del suo team anche a livello personale. D’altronde un manager è colui che raggiunge dei risultati grazie soprattutto al lavoro di altri; se questi “altri” non condividono in pieno la sua visione ed il suo impegno, non potranno dare il contributo necessario a raggiungere gli obiettivi prefissati.”


La differenza fondamentale tra le poche societa’ che mantengono un basso tasso di turnover nel personale assunto da piu’ di un anno (5-7%) e quelle in cui i dipendenti sono in continua mobilita’ (12-22%) risulta quindi collegata alla scelta di fattori premianti non esclusivamente legati agli incrementi salariali, ma ad altri che incidono in modo più radicale sulla qualità della vita aziendale e sulle prospettive a lungo termine del singolo e della famiglia.


Collegare in modo esplicito la valutazione di prestazione e gli aumenti salariali appare come un primo elemento di fidelizzazione del personale (Bjorkamn, Xiucheng, 2002), probabilmente perché questo consente di meglio chiarire, in un contesto linguistico ed interculturale complesso, la prestazione attesa.


Diverso il caso delle esperienze di successo che affrontano il tema del premio in una prospettiva di lungo periodo. Un caso esemplare nel panorama delle aziende italiane è quello costituito dalla Società Perfetti Van Melle che ha ulteriormente abbassato il turn over del personale in posizioni chiave al di sotto della soglia, già estremamente bassa, del 3%. L’azienda ha deciso di rompere con l’escalation quantitativa delle remunerazioni puntando in modo più deciso su aspetti di premio valorizzabili sul lungo periodo.


Ha così sviluppato sistemi di premio più complessi ed integrati che vanno dalla possibilità di corsi di specializzazione (MBA, EMBA, etc.), scuole per i figli, ad assicurazioni mediche e vacanze per tutta la famiglia, e così via. Un insieme di benefit che coprono aree di bisogno che trovano poca risposta a basso costo nel sistema di welfare cinese.


Una ulteriore prassi che ha dato risultati positivi è quella dell’utilizzo spinto del mercato del lavoro interno all’azienda, scelto dalla francese l’Oreal che vanta a livello dirigenziale solo figure professionali cresciute esclusivamente nell’ambito dell’azienda. Il messaggio che l’azienda ha voluto lanciare con questa scelta è stato egregiamente trasmesso e pienamente recepito nella zona produttiva di Suzhou e Shanghai, tanto da garantire il risultato di un turnover rate minore del 5% per gli impiegati con piu’ di un anno di anzianità aziendale.


Di natura invece più qualitativa e orientate all’obiettivo di creare un contesto a maggiore fiducia reciproca sono quelle strategie che mirano comprendere più in profondità i bisogni delle persone e quindi a rispondervi in un modo che potremmo definire “pedagogico” ovvero per orientare alla scoperta di aspetti individuali magari tralasciati nell’ossessiva rincorsa agli aumenti retributivi.

Queste strategia partono dalla scelta di meglio comprendere le culture reciproche e di sviluppare una maggiore consapevolezza delle differenze.

E’ facile in questo campo attingere dalle tradizionali esperienze avanzate di gestione delle persone nelle aziende occidentali.


In primo luogo si cerca di creare una cultura condivisa attraverso lo sviluppo di networking interno e tra le diverse filiali dell’azienda, sottolineando questa creazione con momenti simbolici di incontro atti accrescere lo spirito di appartenenza e l’identificazione. Emblematico, in questa direzione, il caso delle strategie di multinazionali americane.


Strategia fondamentale è la formazione intesa non solo come training specialistico, ma anche come luogo di passaggio della mission e delle strategie aziendali, soprattutto quando quest’ultime hanno le caratteristiche di buon posizionamento, buon prodotto o impegno sociale che possono risultate attrattive per le persone.


Alla formazione tradizionale in alcuni casi si affiancano le modalità one to one, mentoring e coaching che, oltre a consentire il passaggio di informazioni e modelli professionali, sviluppano una relazione personale, una guanxi, che darà sicuramente i suoi frutti.

E’ questo un tema di grande interesse che necessiterebbe sia dal punto di vista teorico che nella raccolta di prassi consolidate, una attenzione più specifica. Si tratta di sviluppare un ricerca che possa sostenere una specificità cinese nell’approccio alle persone e alle relazioni che oggi non viene incrociata nelle modalità di gestione del personale delle aziende occidentali. Se l’introduzione di modelli manageriali di origine specificatamente americana non ha avuto molte resistenze in Europa, in paese ad elevata differenza culturale potrebbe essere necessario lavorare su modelli molto più situati. Da questo punto di vista, la formazione one to one, da un lato recupera una relazione personale maestro – allievo molto presente nella tradizione cinese, dall’altro offre la possibilità , come in tutto il resto del mondo, di rispondere ad esigenze di apprendimento molto soggettive e specifiche.




Job Hopping e strategie di gestione del personale


Gli esempi sopra riportati forniscono elementi per rispondere a domande più ampie e strategiche rispetto alla gestione delle persone in Cina. In primo luogo è necessario ribadire che per gestire le persone è necessario comprendere quali bisogni esse hanno ed impostare strategie di motivazione al lavoro coerenti con gli obiettivi aziendali.


Questa considerazione vale ovunque nel mondo, tanto che il diversity management, come tentativo di comprensione di necessità soggettive sempre più ampie e diversificate, sale in modo crescente nelle priorità dell’agenda manageriale (Bombelli, 2004) .


Nello specifico l’illusione che l’ampio e tendenzialmente infinito mercato del lavoro cinese offra sempre e comunque manodopera qualificata e a basso costo viene messa a dura prova dal job hopping. Se gli imprenditori occidentali, e italiani in particolare, hanno inteso la delocalizzazione come uno dei metodi per sfuggire alle pressanti e spesso iper regolamentate relazioni industriali, probabilmente si trovano di fronte problemi di natura diversa, ma non meno pressanti.


Da un punto di vista generale la domanda a cui rispondere è se il job hopping sia esclusivamente legato a richieste progressivamente crescenti di salario, oppure, come gli esempi di alcune buone prassi sopra ricordate portano a credere, ad elementi di natura differente, più di natura qualitativa che quantitativa. Un’ulteriore domanda di ricerca riguarda quanto la noncuranza rispetto ai temi di natura interculturale possa creare nelle persone l’indifferenza all’azienda citata nel titolo.


Partendo dal presupposto che è impossibile definire quali possano essere i valori collettivi condivisi che animano le persone nella loro ricerca di un lavoro, è però inevitabile interrogarsi sul significato del lavoro che ha animato nel passato il popolo cinese e quali tendenze si possano oggi riscontrare, tenendo conto di alcuni aspetti culturali operanti attualmente e rilevabili in letteratura.


Per sviluppare una riflessione di ampio respiro si possono distinguere tre segmenti culturali, relativamente al lavoro, probabilmente tuttora presenti in aree geografiche o ceti diversi. Il primo segmento riguarda il lavoro nella tradizione confuciana, visto come attività finalizzata allo sviluppo della persona nel suo complesso, all’interno di un contesto caratterizzato da ideali generali di armonia e di rispetto (Cragg, 1995). Da non dimenticare come profonda radice della cultura cinese il ruolo antico della meritocrazia, che permetteva a qualsiasi persona, anche delle più umili origini, di accedere agli esami per la carriera amministrativa, fino alla possibilità di entrare nel ristretto cerchio dell’imperatore.


Un secondo segmento derivato dalla storia recente sia politica che economica, che ha visto la sua maggiore espressione nelle SOEs, le aziende totalmente gestire dallo stato, può essere ben sintetizzato con il detto cinese duo zuo duo cuo, che può essere tradotto con “chi più fa più sbaglia”, atteggiamento peraltro spesso presente anche nelle aziende occidentali gestiste dallo stato e che ha posto problemi specifici di gestione del personale nei contesti pubblici.

In entrambi questi segmenti, valgono le tradizionali dinamiche culturali cinesi di guanxi e mianzi. La prima intesa come relazione profonda e reciproca, e la seconda come modalità di comportamento che rispetta sempre gli altri non mettendoli mai in situazioni critiche o disdicevoli (Bombelli, Arduino, 2005).


Il terzo segmento è quello che sta nascendo e sviluppandosi nei tempi recenti, nelle zone a sviluppo economico preferenziale quali quelle dove il job hopping è più significativo, e che è contraddistinto da una estrema volontà di riscatto dalle condizioni di vita precedenti, con il diffuso desiderio di far parte della schiera di persone che possono accedere ad un benessere economico crescente. I valori di questo gruppo di persone sono tratteggiate da Chang, Cheng e Szeto (2002) che attraverso una survey svolta nel Guandong cercano di comprendere l’incidenza attuale della guanxi e dell’etica negli executive cinesi.


Come era prevedibile le determinanti di comportamenti differenti in relazione agli aspetti in oggetto sono legate all’età e alla tipologia di azienda. Le persone in là negli anni e provenienti da aziende statali esprimono un’etica più ancorata alla relazione intersoggettiva, mentre i giovani con esperienza prevalentemente nelle JV risultano avere un maggiore orientamento all’efficienza e al profitto.


Nello sviluppo di una politica di gestione del personale attenta alle specificità territoriali, un primo problema che si pone è quanto rimanere ancorati a metodologie e persone provenienti dalla casa madre o affidarsi ad un direttore del personale cinese (Lasserre e Schutte 1995), problema che si può allargare a quanto personale locale o espatriato utilizzare e dove posizionare la linea di demarcazione tra le posizioni. La scelta, e il conseguente equilibrio, che non è possibile approfondire nel presente lavoro, porta con se una serie di conseguenze di non poco conto.


Da un lato la necessità di limitare il personale espatriato è dettata dalla difficoltà a mantenere elevata la motivazione, in presenza di molti problemi di integrazione soggettiva e familiare in un contesto sociale molto differente.


Inoltre il personale espatriato difficilmente parla cinese e quindi esiste una ovvia necessità di delega sia ad un direttore del personale che a mangers intermedi locali. Dall’altro le strategie utilizzate dai direttori del personale locali per arginare il job hopping sono spesso quelle di utilizzare persone con legami di guanxi, soprattutto familiari. In questo modo il sottile confine tra la relazione personale e il nepotismo viene spesso valicato, favorendo l’introduzione di propri parenti in tutti i rami della gerarchia aziendale con un chiaro orientamento alla fedelà a discapito della qualità e specializzazione del lavoratore.


Una volta inserito il germe del nepotismo nella struttura aziendale, esso puo’ risultare estremamente difficile da estirpare. Il licenziamento da parte dell’amministrazione di una o piu’ figure di scarso rendimento - anche non in posizioni chiave – può dar luogo a malumori da parte dei lavoratori legati ad essi da vincoli familiari. I dissapori così generati possono sfociare addirittura in palese ribellione contro le direttive aziendali. In particolar modo risulta estremamente semplice nelle JV denigrare stereotipicamente le decisioni della parte straniera come “non cinesi” .


Come si può intuire si tratta sempre di equilibri: se l’integrazione della dimensione economica e retributiva con aspetti relazionali e di network profondamente consoni alla cultura cinese costituisce sicuramente un vantaggio in termini gestionali, il non affiatamento con strumenti chiari e precisi di valutazione della prestazione, rischia di far prevalere interessi di cordate e gruppi, a scapito di quelli aziendali.


Infine, nella progettazione di politiche di gestione del personale, in una situazione a job hopping spinto, è necessario lavorare sulla sofisticazione di strumenti di selezione.

Come si è accennato precedentemente un sistema in espansione economica che richiede figure professionali endemicamente scarse nel mercato, tende ad accettare operazioni soggettive di overselling delle proprie competenze.

Un corso di formazione in Italia, una permanenza in Europa, può assumere nel curriculum vitae una colorazione più vivace di quanto sarebbe nei fatti.


E’ allora necessario non fermarsi all’apparenza, ma sviluppare modalità di intervista o di prove di selezione molto pertinenti al profilo professionale richiesto.


Nel contempo le stesse società di headhunting pur essendo in parte responsabili del gioco al rialzo degli stipendi dei managers da loro proposti, iniziano a dare maggior peso relativo a percorsi professionali in cui si evidenzi un relativa fedeltà aziendale, come garanzia di serietà e di volontà di apprendimento.

D’altro canto alcuni giovani manager iniziano a manifestare il bisogno di un futuro basato su una crescita professionale interna ad una azienda con caratteristiche di serietà, cercando in questo modo di sopperire alla mancanza di quella sicurezza che la generazione precedente aveva nel lavoro garantito a vita, garanzia che trovava espressione nella “ciotola di ferro”, quel recipiente contenente il riso che non veniva negato a nessuno.



Conclusioni


Il job hopping può essere interpretato in diversi modi a seconda dell’ottica che si assume. Come un problema da affrontare in modo specifico, ricorrendo a quelle che sono state definite strategie di breve periodo, quali il differimento del premio o l’assunzione di personale proveniente da aree geografiche omogenee e lontane dal luogo di lavoro, oppure può essere osservato come un sintomo di fenomeni che hanno radici ben più ampie e più estese.


Se il fenomeno del job hopping così come è stato descritto appare estremamente legato ad alcune aree geografiche della Cina, il tema della retention attraversa trasversalmente qualsiasi azienda in ogni latitudine. Il tema centrale rimane quindi la possibilità di sviluppare un contratto di natura non solo giuridica, ma psicologica.

E’ difficile allora non vedere nel salto ravvicinato non solo un’ansia di guadagno e di carriera, peraltro comprensibili in un Paese dove per anni è prevalso il collettivismo, ma anche un disagio profondo che necessita di qualche interpretazione.


Una prima risposta che si evince dalle strategia adottate dalle aziende intervistate, riguarda l’attrattività di strumenti che ampliano l’aspetto quantitativo con quello qualitativo, e l’orizzonte temporale dal breve al lungo periodo.


Ad esempio l’integrazione degli aspetti salariali con servizi quali sanità e scuola, aumentano la retention, sia perché danno opportunità difficili da reperire nell’area geografica in esame se non a costi molto elevati, sia perché fidelizzano differendo nel tempo l’erogazione delle opportunità. Lasciando il lavoro si perdono anche degli accumuli effettuati.


Il tema però della scuola, così come della formazione in genere, e delle opportunità di sviluppo professionale e di carriera, intercettano un bisogno più profondo e radicato culturalmente. In una paese dove la possibilità di mobilità sociale è sempre stata legata allo studio e alla meritocrazia ad esso correlata, non proporre uno sviluppo professionale e personale rischia di non evadere una domanda che non è limitata, ma si espande al senso del lavoro e della relazione con l’azienda.


Analogamente ciò che sorprende del job hopping è la quasi scomparsa di uno dei temi centrali della cultura cinese, molto studiato anche nella letteratura manageriale, la guanxi.

La traduzione che viene prodotta nelle pubblicazioni occidentali è “relazione” o “network”, ma il significato più profondo è di rapporto fiduciario in cui sviluppare una relativa sicurezza circa la possibilità di superare difficoltà e problemi che inevitabilmente si incontrano.


Se le persone saltano da un posto di lavoro all’altro significa che non hanno trovato una relazione di fiducia sufficientemente corroborata da essere attrattiva.Questo è un tema che deve fare riflettere coloro che delocalizzano spesso con poca attenzione al background culturale di riferimento.


Il viaggio verso la Cina intrapreso dalle aziende occidentali non può essere segnato solo da vantaggi marginali di carattere economico di breve periodo. La disponibilità di manodopera a poco prezzo, le economie offerte dalle Zone Economiche Speciali sono vantaggi che sul breve periodo possono essere di impatto, ma che nel medio e lungo termine rischiano di vanificarsi.


Questo viaggio deve anche essere accompagnato da un sincero interesse verso una cultura millenaria e verso tradizioni e consuetudini molto diverse, probabilmente di non immediata comprensione, ma di grande arricchimento.

Se l’etnocentrismo è una malattia che i potenti possono permettersi di non curare, i dati dello sviluppo economico cinese lasciano intuire che i rapporti di forza si stanno rapidamente ribaltando e le conseguenze non sono ancora del tutto prevedibili.


Approcciare quindi la gestione del personale in termini cross culture non è solo un tema di natura ideale e di conoscenza, peraltro estremamente importante; ma ha anche un correlato economico non indifferente.

E’ questo uno scenario che lascia spazi di ricerca teorica e di sviluppo di soluzioni concrete tali da sfidare intelligenze e pratiche manageriali del prossimo futuro.



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