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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Cina: il paese delle contraddizioni


Nel mestiere manageriale capita spesso di avere a che fare con situazioni complesse che necessitano capacità di analisi senza pregiudizi e flessibilità nel cogliere situazioni nuove con migliori attitudini di adattamento. La Cina, il paese delle contraddizioni per antonomasia, è da questo punto di vista un banco di prova eccellente.


Sono ormai molti gli studi e le esperienze accumulate che mettono in luce le difficoltà di comprensione reciproca, di adattamento e di cooperazione che coinvolgono i manager di scuola americana ed europea e quelli di tradizione cinese. Difficoltà che a prima vista appiano incomprensibili in un mondo, quello del business, che appare sempre più uniforme, accumunato dalle stesse metodologie, dagli stessi modelli e da un lessico apparentemente univoco.


Eppure le culture soggiacenti, sedimentate in millenni di appartenenze, emergono e segnano delle linee di faglia tra gruppi che spesso rischiano di scatenare terremoti conseguenti.


L’articolo proposto elenca alcuni degli argomenti cardine di queste diversità, alcuni di tradizione confuciana, altri più collegati al recente passato ed a sistemi di produzione accentrati con altissima centralità del luogo di lavoro nella vita individuale attraverso le unità di lavoro, gongzuo danwei.


Il passato antico e recente si saldano, ad esempio, nella centralità della famiglia, del gruppo ristretto, collegato da quei legami di rispetto reciproco, guanxi, che rendono così peculiare la vita organizzativa cinese.


Gestisco la mia azienda” mi diceva un manager cinese CEO di una grande linea area “come se fosse una famiglia. E’ questa la prima leva di motivazione per noi cinesi.” Nonostante studi occidentali e una lunga permanenza all’estero, tornato in patria sa comprendere perfettamente le radici culturali che vanno rispettate con modalità di comportamento che, soprattutto in Italia, sarebbero tacciate di paternalismo.

I suggerimenti che vengono presentati sono tutti interessanti e condivisibili. La riflessione che vorrei proporre riguarda però alcuni ostacoli che i manager occidentali trovano nel seguirli.


In primo luogo l’adamantino e naturale etnocentrismo ovvero la sotterranea convinzione che la propria cultura è migliore di quella che viene attraversata nella veste di manager viaggiatori o di espatriati.. Questo convincimento purtroppo è spesso corroborato dal knowledge manageriale proposto dalle business school che rende oggettive modalità sia gestionali che di comportamento che viceversa sono culturalmente situate.

Prendiamo ad esempio la negoziazione: l’impianto trasmesso dai teorici americani è schematicamente logico, lineare nello svolgimento e costruito sulla convinzione che le persone dicano sempre la verità. In oriente accade esattamente il contrario, l’approccio è olisitco, il dire e non dire sottende spesso un approccio sistemico e l’idea stessa di verità è molto aleatoria. Non per niente un classico romanzo cinese “Il sogno della camera rossa” si descrive come il luogo dove “il falso si fa vero e il vero si fa falso”.


Difficile, dopo anni di studi convinti e valorialmente sostenuti, mettersi nei panni degli “altri”, che appaiono non solo distanti, ma al di fuori delle normali classificazioni di “normalità”.


Un secondo elemento che viene correttamente evocato è il rapporto con l’headquarter. Certamente il supporto centrale è necessario, eppure nella pratica corrente il rischio di visioni diametralmente opposte è sempre in agguato. In quasi tutte le situazioni da noi studiate questo elemento era considerato come un ostacolo e non una risorsa. La pretesa di uniformare politcy in contesti economici asincroni, il desiderio di trasparenza che fa imporre sistemi operativi centralizzati di difficile comprensione e conseguente applicazione, il deliro di controllo che spesso sottende alle modalità gestionali. Molti delle interviste raccolte in China CEO (Fernandez, Underwood, 2006) mettono in luce questa difficoltà. In una di esse si arriva a dire che l’enorme sviluppo della delocalizzata locale si era ottenuto “nonostante” il quartiergenerale, attuando una politica di mezze verità, di occultamenti mirati, di gestione della comunicazione alla “cinese” appunto. Sembra realizzarsi in questi comportamenti un vecchio proverbio cinese: Il cielo è alto e l’imperatore è lontano, quindi prendiamoci delle discrezionalità in barba alle indicazioni dei piani alti dell’azienda.


Da queste considerazioni, complementari a quelle sviluppate nel lavoro proposto, appare chiaro come il successo oltre la grande muraglia non può essere imputato esclusivametne ai singoli manager. Esso si compone di diversi aspetti organizzativi che necessitano un ripensamento degli equilibri accentramento – decentramento tra il centro e le periferie e della flessibilità dei sistemi di gestione. Poi sono certamente gli uomini a fare la differenza: ma questo valore aggiunto che possono dare parte anche dal parziale tradimento di molte delle convinzioni personali e lavorative accumulate negli anni. Lo spunto può essere prezioso anche per chi studia queste materie, per riflettere sulla pervicacia con cui vengono trasmessi modelli che si spacciano per assoluti o mode manageriali che spesso tramontano nello spazio di pochi mesi.


Come sempre nei confronti con l’”altro” c’è da metterci molta fatica, ma il risultato che si ottiene non solo la relazione che si crea o il valore che si produce, è anche un apprendimento a mettere in discussione sé stessi e le proprie convinzioni.


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