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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Esiste la paura in azienda?

Con Edgar Klein Obbink


Indice

Introduzione

Le forme della paura in azienda

Percezione e realtà, soggettività e oggettività

Strategie organizzative e culture: legami con la paura


Introduzione

Il tema della paura è quanto mai attuale in un contesto che, in continua modifica, sgretola le consuete certezze e costringe continuamente a modificare punti di riferimento, valori e comportamenti.


Come la maggior parte delle emozioni in azienda è un tema sostanzialmente bandito dalla discussione aperta e dal confronto trasparente. In più ammettere e condividere di aver paura rischia di essere preso come elemento di debolezza e, di conseguenza, di inaffidabilità


Eppure la paura si percepisce in molte situazioni in modo quasi fisico negli ambienti aziendali, seppure sottotraccia rispetto all’ammissione limpida, ed influenza in modo evidente i comportamenti aziendali ed organizzativi.


Avere paura non è quasi mai un fatto oggettivo in un ambiente organizzativo. Mentre in alcune situazioni di minaccia personale, o di scelta di affrontare il rischio in ambienti estremi, vi sono delle minacce concrete, reali e tangibili, in azienda vige, da un lato, una dimensione giuridica che funge da contenimento dei comportamenti limite, e dall’altro, una correttezza sostanzialmente formale.


In questa terra ambigua è molto difficile, per chi lavora, distinguere ciò che costituisce una minaccia reale e ciò che invece è una mis interpretazione, una comprensione deformata dalle voci di corridoi, dal catastrofismo che scaturisce dalla lettura delle tendenze in essere nell’economia e nella società.


Ovviamente di questa ambiguità spesso le organizzazioni si giovano, lasciando trasparire delle possibilità, mettendo in guardia rispetto a fenomeni molto plausibili, come fusioni o ristrutturazioni, giocando sull’ansia diffusa per captare un maggiore impegno, una maggiore disponibilità ad accettare condizioni al ribasso.

Nel tentativo di meglio comprendere questo fenomeno proviamo innanzitutto a decifrare gli elementi che contraddistinguono la paura, o meglio, le preoccupazioni che pervadono il rapporto tra gli individui e le organizzazioni.


Le forme della paura in azienda


Sicuramente al primo posto tra le paure di chi lavora vi è quella di perdere il lavoro, che assume dei connotati particolari a seconda dei contesti, sia nazionali che di settore.


Ad esempio, in Italia dove le protezioni giuridiche sono molte ed efficaci, tanto da far lamentare un eccesso da parte imprenditoriale, la preoccupazione è comunque molto presente, probabilmente giustificata da un mercato del lavoro molto rigido e ingessato emargina in modo molto preoccupante chi subisce il licenziamento.


D’altro canto, come abbiamo sottolineato in introduzione, le emozioni negative raramente si radicano a piani di realtà. E quindi un contesto turbolento, dove ristrutturazioni e acquisizioni lasciano sul campo molti esuberi, dove chi il lavoro effettivamente lo perde fa fatica a trovarne un altro a pari condizioni, spesso incentiva un ingigantimento della possibilità di perdere il posto. La paura, in questo campo, può agire a monte, spingendo molti a scegliere percorsi di carriera sicuri (p.es. statali) al costo di sacrificare ambizioni professionali ed economiche, oppure a rimanere in settori o posizioni tradizionali, perché in essi è possibile fare delle ragionevoli previsioni di sicurezza, invece che lanciarsi in avventure, magari più soddisfacenti, ma in ambienti nuovi e potenzialmente ostili.


Sul versante organizzativo, molte aziende fanno di questa paura la principale spinta alla performance: dalle piccole organizzazioni in cui il rischio di licenziamento viene ventilato in ogni occasione, fino alle multinazionali, spesso di matrice statunitense, che addirittura codificano e sistemizzano policies che impongono la rimozione del 10 % meno performante in un anno (salvo poi scontarsi con le norme italiane in materia). In entrambe le situazione spesso l’ipotesi è più ventilata che reale, ma la percezione di pericolo è pressante e conduce, oltre che ad un ambiente altamente tossico, ad alcuni comportamenti manageriali sostanzialmente deformati.

Il primo consiste nell’uniformarsi a modalità simbolicamente ritenute gradite, come ad esempio lavorare curando in modo eccessivo il face time, ovvero la presenza non necessariamente produttiva, ma molto gradita al management, dimostrando attraverso questa dedizione, lealtà ed impegno, o meglio, nel far vedere che si lavora tanto, magari anche senza una reale produttività. Il protrarsi della presenza in ufficio , soprattutto la sera, diventa una dimostrazione di lealtà e di impegno.


L’altro fenomeno che spesso si riscontra è la mancata espressione di qualsiasi dissenso con la struttura gerarchica o la proprietà fino al punto di arrivare ad una totale mancanza di pensiero critico.

Sull’altro versante è interessante verificare come negli ambienti dove la paura di perdere il posto di lavoro non esiste, ambienti statali e para-statali, ad esempio, ma anche nel passato alcune aziende ”materne”, spesso si riscontra una evidente scarsa motivazione e un non sostanziale interesse rispetto ai risultati aziendali, ritenuti come aspetto ininfluente se non addirittura altro rispetto al proprio operato. Una situazione evidentemente altrettanto patologica che scollega in modo sistematico il comportamento soggettivo, dai risultati organizzativi e dalla sopravvivenza aziendale.


Un’altra endemica preoccupazione, riguarda la potenziale esclusione dai meccanismi di sviluppo e di carriera. E’ evidente che la carriera non è dovuta, non è qualcosa di garantito, ma per molte persone la possibilità di accedere a delle posizioni più elevate può avere diversi significati soggettivi: sicuramente maggiore disponibilità economica, ma anche una dimensione di status e di riconoscimento ufficiale.


La situazione è diversa nei contesti in cui le regole sono il più possibile trasparenti, con una storia organizzativa di tentativi di avvicinare il più possibile le prassi progettate a livello di gestione risorse umane e la percezione che di esse ne hanno i collaboratori, rispetto alle realtà poco strutturate, sia per incuria che per scelta.


In questo secondo caso, la soggettività delle decisioni, con conseguenti criteri di valutazione estemporanei, rendono l’area dell’inquietudine molto più elevata, con la conseguente creazione di voci di corridoio e di leggende, poco controllabili. Situazione che a sua volta diventa alimento della paura soggettiva, coinvolgendo anche coloro che generalmente sanno mantenere i nervi saldi..


Per ottenere uno sviluppo di carriera è necessario, inevitabilmente, passare attraverso il giudizio sul proprio operato. Questo, nella dimensione fisiologica del feedback esso ha una funzione vitale: riaggiusta in modo sistematico la comunicazione interpersonale e il comportamento di ciascuno, in modo da aderire alle attese degli altri e del contesto, e di raggiungere obiettivi personali.


Il giudizio, quindi, è il principale fattore di evoluzione e di crescita individuale, ma, nel contempo, è anche un elemento di potenziale ferita

Al suo equilibrio concorrono diversi fattori. Innanzitutto la personalità dell’individuo, ovvero la maturazione di una solidità individuale che permetta in primo luogo di ascoltare il feedback e, successivamente, nella versione della maturità, anche di modificarsi in relazione ad esso.


Questi aspetti personali che sono sia di personalità, ma anche di sensibilità e di cultura, fanno si che vi sia spesso una differenza di genere e di generazione, in relazione a queste capacità. Le donne, frequentemente meno caratterizzate da overconfidence, tendono ad essere più sensibili al giudizio, fino, in qualche caso, a farsene paralizzare. I giovani, a detta dei più maturi in azienda, sono portatori di una sorta di insofferenza verso una valutazione non coerente con la percezione di sé, generalmente piuttosto elevata.


Più presente, invece, negli uomini che nelle donne è anche la paura di perdita di prestigio, che si potrebbe tradurre in un peggioramento generalizzato del giudizio. Job-title, auto aziendale, simboli di status come l’ufficio e gli aspetti fisici del posto di lavoro stesso diventano elementi fondamentali della propria identità nei confronti del mondo esterno e la paura della loro modifica o perdita può indurre a comportamenti difensivi.


Dall’esclusione dalla carriera si arriva all’esclusione tout court, ovvero quel fenomeno che si aggira in modo molto strisciante nelle aziende che è il mobbing. Ad osservare le denunce e le cause intentate per mobbing si direbbe che ormai le organizzazioni siano preda di un manipolo di manager spietati, tanto esse sono aumentate in questi ultimi anni. Di converso nessuna sentenza è stata mai emessa a conferma di un fenomeno che appare molto evanescente sia nei contorni giuridici che in quelli organizzativi. Si giudica attraverso le tradizionali categorie che definiscono in altro modo l’esclusione dai compiti contrattati, il sotto utilizzo delle persone o modalità di vessazione di varia natura. Eppure questa dizione sopravvive, tanto che alcune regioni, anche sotto spinta sindacale, hanno costituito un osservatorio permanente per monitorarlo.


Al di là della concretezza, un sintomo sicuramente di una serie di malesseri, ma anche di paure che attraversano le relazioni tra le diverse persone in azienda.


Su queste paure di fondo, legate al proprio status in azienda e alle modificazioni che esso possa subire, nonché alla qualità delle relazioni che lo sostengono, si innestano una serie di particolarità dovute, ad esempio, alle generazioni.


I giovani, dal canto loro, denunciano una serie di ansie che sono in molti casi giustificate: l’allungamento continuo dei tempi di inserimento, rapporti di lavoro traballanti, spesso con garanzie inferiori rispetto a quelle dei colleghi più anziani. Un universo aziendale profondamente attraversato da una percezione di non equità, dove alcune posizioni organizzative vedono convivere persone con un trattamento tradizionale, sicuro, con pochi rischi, ed altre che invece devono continuamente affrontare l’ansia personale del futuro.


Su un versante opposto vi sono i cinquantenni, o quelli che si apprestano a diventarlo, che in molte realtà sentono lo stigma dell’età. Gradualmente esclusi dai percorsi di sviluppo, dalle opportunità formative offerte, si vedono relegare in un limbo che, in alcuni cari, preclude all’esclusione vera e propria. Da questi fenomeni sono colpiti anche categorie che tradizionalmente si sentivano immuni, come i dirigenti. Il licenziamento arriva spesso come un fulmine a ciel sereno. Così racconta una dirigente di una nota multinazionale italiana: “La proposta mi è stata fatta Direttamente dalla Direzione del Personale: è stata improvvisa e fatta con malagrazia. Ero una dirigente fedele, premiata molte volte. Non mi è stata data nessuna spiegazione, solo l’annuncio”.


Questi episodi sono molto difficili per chi li vive, ma diventano un inevitabile monito per gli altri, un timore che si aggira tra i gruppi che si sono sentiti per anni intoccabili. La situazione, inoltre, come ben descrive la protagonista della vicenda, appare schizofrenica. Da un lato, fino a pochissimo tempo dal licenziamento, un grande apprezzamento, soprattutto da parte del suo capo diretto, dall’altro la presenza di altre logiche oltre quelle del merito, che si sovrappongono ed inquinano il contratto psicologico esistente, sovvertendolo completamente. Per chi se ne va è una fortissima delusione, un vulnus psicologico prima ancora che un problema concreto, per chi resta lo sconcerto di essere di fronte ad un mostro dalla molte teste e dalle diverse logiche, non sempre comprensibili. Quale quella che preverrà nel prossimo futuro?

In sintesi si potrebbe dire che le forme della paura in azienda ripercorrono quelle ancestrali dell’individuo: la minaccia alla sopravvivenza, il terrore dell’abbandono e dell’isolamento, il timore dell’esclusione e del fallimento.


Percezione e realtà, soggettività e oggettività


Appare chiaro dalle considerazioni svolte finora che la paura ha una connotazione estremamente soggettiva e di conseguenza, paradossalmente, vi è una meta paura, quella di non essere capaci di distinguere la realtà dalla fantasia.


La paura è contagiosa, come sottolinea Oliverio Ferraris, ed esiste quindi il rischio di farsi trasportare da letture catastrofiche e fuorviare da “cattive compagnie”.

Anche dal punto di vista individuale, come per tutte le emozioni sia positive che negative, vi è una diversa predisposizione a seconda sia del momento psicologico, ma anche del livello di salute complessivo.


Conta ad esempio in modo molto forte la storia individuale: è evidente che persone traumatizzate nella loro vita da qualche evento, avranno una maggiore paura di situazione analoghe, oppure che la soggettiva propensione alla fiducia o alla sfiducia maturata negli anni infantili giochi una importanza rilevante negli anni adulti.

Ma è importante anche rilevare la reazione biologica sottesa alla paura: reale o immaginaria che sia la percezione, la reazione che ne consegue è una tempesta di reazioni biochimiche incontrollabili coscientemente.


Comprendere la profonda interconnessione tra aspetti psicologici e biologici avvalendosi del contributo delle neuroscienze, aiuta a meglio identificare il ruolo della paura nel comportamento umano, il suo contributo fisiologico e, viceversa, il rischio patologico.

Essa consente un arousal equilibrato. Con questo termine si intende la reattività del sistema nervoso che può variare, in una ipotetica gaussiana, dell’inattività all’iper eccitazione. Nel primo caso la risposta a stimoli potenzialmente pericolosi è pressoché assente, con i rischi conseguenti per l’individuo, nell’altro estremo vi una reazione esagerata che rischia di sviluppare comportamenti inadeguati alla situazione e quindi altrettanto potenzialmente pericolosi.


Essere consapevoli sia delle difficoltà soggettiva di percezione dei rischi, che della complessità di reazione psico-corporea all’ansia e alla paura, può aiutare i soggetti a cimentarsi con il “coraggio della conoscenza”.

Per fare questo occorre sviluppare un’attitudine alla lettura scientifica, che cerca evidenze empiriche e si assume la responsabilità dei riscontri. Strada non facile in un paese come il nostro dove prevalgono sempre gli opinionisti, rispetto agli scienziati, ma che è inevitabile quando si voglia far confrontare la propria amidgala, il centro emozionale per eccellenza, con la neo corteccia, la parte cerebrale evoluta che contorna e supporta la dimensione ancestrale.


Dal punto di vista della vita organizzativa questo significa non cadere nelle trappole delle voci incontrollate, ma anche saper confrontare i dati posseduti con quelli che hanno altri, per riuscire a formarsi una mappa del territorio il più possibile esaustiva. E’ chiaro che il risultato di questa ricognizione può essere preoccupante, come vedremo successivamente nella dimensione organizzativa, ma lo è a ragion veduta, e può sollecitare dei comportamenti di attacco o fuga, coerenti con lo stimolo ricevuto.


L’altro aspetto importante che può aiutare gli individui a interagire in modo attivo con la paura, è la gestione della mente attraverso il corpo. In situazioni stressanti, in una prospettiva sistemica, si può agire sulle reazioni più che sulle cause. La capacità di utilizzare strategie di detachment, di respirare in modo rilassato, di mantenere la calma, sono elementi che aiutano a gestire situazioni anche oggettivamente pericolose.


Infine, un elemento importante nella gestione delle proprie paure in ambito organizzativo, consiste nella capacità di mantenere una identità pluriancorata, che inserisca il lavoro nella propria vita non come le elemento univoco. Sindrome tipicamente maschile si estrinseca in ansia continua, nel ricercare continue conferme circa la bontà del proprio agire, nella ricerca perenne di alleati nei giochi quotidiani del potere. Quando crolla, per qualsiasi ragione, il contesto nel quale questi individui esercitano il proprio ruolo, lo spettro che si deve affrontare è il fallimento. E proprio questa paura rischia di reiterare comportamenti, magari anche al limite del lecito, per poter continuare a mantenere la costruita immagine di sé.


Strategie organizzative e culture : legami con la paura


In ogni organizzazione esiste una dimensione psicologica condivisa, un mood che ne caratterizza gli approcci alla realtà, i comportamenti organizzativi, il grado di fiducia diffuso.

La cultura organizzativa che ne è l’espressione, è legata certamente alla storia e alle evoluzioni subite dalla realtà aziendale nel suo divenire, ma anche alle caratteristiche della leadership.


Come abbiamo sottolineato nella descrizione delle forme della paura, gli elementi culturali che definiscono anche le prassi diffuse, sono in buona misura responsabili anche dei sentimenti individuali. Spingere molto l’acceleratore sugli elementi di controllo, sugli aspetti punitivi, colpire qualcuno al di fuori della regole stabilite, così come tradire i contratti psicologici prima ancora che giuridici, contribuisce a creare un clima sospettoso, dove la paura rischi di contaminare la percezione della realtà, avvallando una visione persecutoria del contesto organizzativo.


D’altro canto vi è un intuibile rischio opposto, che si percepisce in qualche realtà costruita al di fuori delle normali regole di mercato, in cui vengono tollerati comportamenti avulsi da un qualsiasi contesto “normalemente” premiante e punente. L’assenza pressoché totale di preoccupazione porta a dei comportamenti organizzativi opportunistici oltre ogni ragionevole buon senso, con una percezione dei propri “diritti” prioritaria rispetto a qualsiasi responsabilità collettiva. In queste situazioni a nulla valgono le urla “una a tantum” di qualche ministro in vena di popolarità. Mancando un gestione del personale degna di questo nome, ciascuno è lasciato a sé stesso e, di conseguenza, sviluppa una visione del mondo autoreferente.



Oltre a questo, però, vi sono situazioni in cui la cultura organizzativa e lo stile di leadership sono esse stesse portatrici di una paura che limita fortemente le potenzialità di sviluppo.


E’ il caso in particolare della paura del cambiamento. “Abbiamo sempre fatto così…..” è una frase che ogni consulente si è sentito ripetere nella sua attività. La consuetudine è confortevole, fuori dagli schemi c’è l’ignoto, così come fuori dai confini, oltre le montagne, al di là del fiume… I viaggiatori antichi erano guardati con sospetto ed ammirazione, ma molti di loro tornavano con enormi ricchezze e raccontavano esperienze fantastiche. Certo, qualcuno non tornava affatto.


Anche in questo caso è una questione di arousal. “Paura e curiosità sono le due facce di una stessa medaglia: da un lato c'è il timore dell'ignoto e di tutto ciò che è nuovo, diverso e potenzialmente pericoloso; dall'altro c'è l'eccitazione della scoperta e del rischio, il piacere di imbattersi in aspetti sconosciuti e imprevisti, di mettere alla prova il proprio coraggio.


Un eccesso di paura spinge a non abbandonare le strade note, a temere tutto ciò che già non si conosce o su cui si teme di non riuscire a esercitare un controllo. La curiosità e la soddisfazione di poter essere all'origine di cambiamenti rappresentano invece una delle molle all'origine dell'esplorazione e della creatività”.


A livello strategico, la paura dell’ignoto può bloccare l’innovazione, fino a minare il futuro dell’organizzazione stessa. Emblematico un caso come Kodak: inventore della fotografia digitale negli anni ’70 del secolo scorso, ne ha talmente paura che la rinchiude nei cassetti dei laboratori ricerca e sviluppo, rinnegando il suo ruolo di sostituzione del mercato tradizionale delle pellicole anche di fronte alle evidenze di mercato fino al 2003, quando ormai è tardi per prendere un ruolo di leadership che potrebbe essere stato suo.


Un'altra situazione molto importante nel contesto attuale, in cui le organizzazioni dovrebbero imparare a gestire in modo consapevole la paura, è la gestione della diversità in azienda.


Nonostante le nuove mode manageriali tendano ad enfatizzare il ruolo delle diversità nella creazione del valore, mutuando risultati di ricerca dalla biologia che dimostrano come la varietà e l’interazione tra essa sia fondamentale per la ricchezza e la conservazione dell’ambiente, le persone ricercano sistematicamente conferme al proprio agire dagli eguali. La diversità è faticosa perché comporta la necessità di mettersi in discussione, di delocalizzare il proprio punto di vista negli occhi altrui, di allentare i giudizi di valore tanto automatici negli ambienti costituiti da simili. Il diverso costringe ad interrogarsi, ad osservare con più attenzione, a rivedere il proprio modo di agire. E questo non sempre è accettabile.

E’ facile di conseguenza, scivolare nel pre-giudizio, inteso come l’adozione di software mentali consueti, con il conseguente estraniarsi rispetto a chi è omogeneo per motivi differenti.


Così, ad esempio, le donne sono viste come instabili, uterine, nelle relazioni personali, oppure una minaccia ai breadwinner, nelle situazioni organizzative; gli stranieri, se sono tedeschi sono rigidi, se sono americani invasori ed individualisti, se sono extracomunitari una minaccia al proprio posto di lavoro. E così via secondo l’umore e il momento storico – sociale. Anche in questo caso, il naturale etnocentrismo di ciascuno e la tendenza a sopravvalutare il proprio punto di vista e la propria esperienza, possono essere mitigati dal punto di vista organizzativo, da opportune regole, da una formazione adeguata e dalla progettazione di team disomogenei che favoriscano la conoscenza reciproca.


Per concludere, la dimensione fisiologica della paura che aiuta l’individuo e l’organizzazione a mantenere alta la propria attenzione e a sviluppare proficue strategie di sopravvivenza, può diventare angoscia e tradursi in immobilismo.

Per trovare questo equilibrio è necessario innanzitutto ammettere la paura e condividere delle strategie individuali ed organizzative di gestione.


Sapendo però che vi è un comportamento da evitare in modo assoluto, soprattutto a livello elevato nella gerarchia: quello di far leva sulla paura per sottomettere, per scagliare un gruppo contro l’altro, per aizzare contro nemici il più delle volte inesistenti.

Le forze oscure dell’anima, quando sono evocate, hanno spesso una caratteristica: quella di non farsi più imbrigliare e di portare verso risultati negativamente inattesi.

I leader dovrebbero sapere che le loro parole sono pesanti come pietre e che i loro comportamenti sono sottoposti ad una attenzione spesso spasmodica dei collaboratori. Per questo, prima di tutto, dovrebbero imparare a discernere i fantasmi dalla realtà, ancorandosi a dati di fatto, più che a supposizioni.


Il contesto attuale certo non agevola, le certezze sembrano tramontate come i risparmi che ciascuno aveva coscienziosamente messo da parte. Proprio per questo è importante mantenere la testa sulle spalle ed agire in modo meditato, magari non da leader, ma almeno da adulti.


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