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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Welfare aziendale: ampliamo la prospettiva

In questo contributo vorrei proporre alcune riflessioni che aiutino le aziende a posizionare l’eventuale scelta di proporre azioni di welfare aziendale in un ambito strategico.

Come molte altre azioni manageriali, l’welfare rischia di essere proposto in modo episodico nel tempo e in maniera frammentata rispetto alle scelte di posizionamento politico dell’azienda in relazione al territorio in cui opera e agli altri soggetti che su questo spazio insistono.

Per fare questo vorrei partire da alcune problematicità, a cui è necessario dare risposta, per poi agire strategie aziendali di welfare che abbiano una coerenza intrinseca e che non precostituiscano un effetto boomerang in termini di reazione dei beneficiati.


Relazioni con l’Welfare state


Se l’welfare state può essere definito come “ quel complesso di politiche pubbliche messe in atto da uno Stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini, modificando in modo deliberato e regolamentato la distribuzione dei redditi generata dalle forze del mercato stesso”, l’welfare aziendale viene proposto ad un gruppo di persone selezionato dai confini dell’impresa, i lavoratori, aumentando il divario tra chi un lavoro lo possiede e chi invece è disoccupato o non attivo nel mercato del lavoro per diverse ragioni.


Gli obiettivi perseguiti dal welfare sono fondamentalmente tre: assicurare un tenore di vita minimo a tutti i cittadini; dare sicurezza agli individui e alle famiglie in presenza di eventi naturali ed economici sfavorevoli di vario genere; consentire a tutti i cittadini di usufruire di alcuni servizi fondamentali, quali l’istruzione e la sanità

Gli obiettivi dell’welfare aziendale sono generalmente la fidelizzazione dei propri collaboratori attraverso una serie di benefit che aumentano l’attrattività della azienda.


Non è poca cosa avere di fronte una contraddizione di questa portata: da un lato l’attore Stato che cerca di ridurre le disuguaglianze con un modello di intervento universalistico; dall’altro il soggetto aziendale che, visto con un ottica sociale, aumenta il privilegio di chi ha già un lavoro a discapito dei soggetti che diventeranno residuali, anche per il servizi a cui potranno attingere.


E’ evidente che questo rischio mette in crisi la “responsabilità sociale d’impresa” alle fondamenta.

La prima domanda è quanto questa contraddizione sia chiara nelle scelte di policy, e quanto quindi venga conseguentemente affrontata nel proporre dei disegni che ampliano il divario tra chi ha dei privilegi e chi non ha nemmeno l’essenziale.


Una contromisura attiva potrebbe essere una nuova collaborazione aziende – pubblica amministrazione che metta in campo la responsabilità dell’azione azienda tenendo conto del contesto più allargato. Un esempio per tutti sono i classici asili aziendali che potrebbero essere, come accade in molti casi, un progetto congiunto privato – pubblico per allargare il servizio anche ai bambini del territorio.


E’ evidente che proposte di questo tipo prevedono una maggiore fatica nell’organizzare e nell’interloquire con altri soggetti, ma il vantaggio sostanziale potrebbe essere quello di un’impresa che supera i confini, radicandosi in modo attivo sul territorio e disseminando capacità di gestione in ambiti quali il pubblico e il privato sociale che, generalmente, sono meno efficaci nel management.


Un ulteriore elemento della contraddizione tra i comportamenti dello Stato e delle imprese sui temi dell’welfare è che il primo si sta muovendo attualmente da ente erogatore ad ente ordinatore, non fornendo quasi più direttamente dei servizi – il modello lombardo da questo punto di vista è paradigmatico – ma dando dei vaucher alle famiglie che li possono poi spendere con soggetti pubblici o privati convenzionati, a scelta. L’welfare aziendale diventa invece esso stesso erogatore, attraverso soggetti a cui delega in outsourcing, ma con un offerta di servizio diretta.


Tutto questo in un contesto dove, a livello mondiale, l’ Welfare state, è sottoposto a ripensamenti importanti dovuti alla oggettiva non sostenibilità economica dei modelli più avanzati (Europa in generale, soprattutto del nord) e alla difficile introduzione anche in paesi che si stanno muovendo verso uno sviluppo significativo (Asia). Per i paesi ancora in via di sviluppo l’Welfare rimane un sogno.


Quali servizi


Esistono diversi approcci ai servizi da proporre, alcuni di scelta teorica o ideale, determinata dalle convinzioni delle aziende eroganti, altre invece radicate in un’analisi dei bisogni concreti delle persone. Ma non bisogna dimenticare che la defiscalizzazione di alcune tipologie di offerta sta producendo una distorsione che privilegia i servizi più appetibili sul piano economico.


Anche questa è una contraddizione da tenere presente, partendo – ovviamente – da una seria analisi di quali sono i desiderata, ma anche – per rafforzare il punto precedente – quanto esiste già nell’offerta sociale allargata e quali possono essere le sinergie.

Il rischio della defiscalizzazione, cosa buona in sé, è che ingeneri una distorsione che allontana dalle reali esigenze.



Welfare e responsabilità sociale


Alcune azioni ascrivibili al welfare aziendale sono in parziale o totale sovrapposizione con le politiche di gestione delle persone, e quindi di qualità del lavoro e di diversity management.


Non esiste però solo un tema di allocazione a quali responsabili offrire il presidio delle tematiche con il rischio di doppioni, soprattutto si pone un problema di coerenza.

In primo luogo la responsabilità sociale non può essere vista come un tema a sé, se – ad esempio – all’interno dell’azienda vi sono prassi di gestione del personale che generalmente vengono viste come negative da parte dei collaboratori.


Due esempi per tutti: le efferate politiche up or out di alcune realtà organizzative portano ad allontanare le persone che non hanno una prestazione eccellente, spesso in modo non molto fair, per usare un eufemismo. Il meccanismo che prevede delle esclusioni continue sulla base della gaussiana delle prestazioni, porta ad un clima di paura e sospetto che poco si concilia con altre strategie di retention.


E’ evidente che le persone si trovano in una contraddizione, da un lato sentono di essere perennemente a rischio, dall’altro si trovano blandite da benefit sociali, con il rischio che la perdita del posto equivalga , sul piano personale, ad una sottrazione complessiva del proprio tenore di vita molto significativa.

L’altro aspetto riguarda ad esempio, le politiche di stage e di inserimento dei giovani.

Se nelle prassi i giovani passano da diverse forme di precariato, spesso pagate pochissimo e non vengono poi assunti, parlare di responsabilità sociale diventa una contraddizione che fa diventare poco credibili.


Si tratta quindi di chiedersi quanto le politiche di gestione delle persone, in senso allargato, offrano il fianco ad una critica della responsabilità sociale dichiarata dall’impresa, per sviluppare delle coerenze accettabili. Si potrebbe dire, con uno slogan, che qualche volta è necessario tornare ai fondamentali, rivedendo le regole di base, invece che aggiungere progetti.


Welfare, clima organizzativo e stili di management


In modo analogo è bene tenere presente i risultati delle indagini di clima, per capire meglio quali siano i comportamenti manageriali correnti, prima di offrire azioni che possono rivelarsi contraddittorie o addirittura contro-producenti.

Un esempio: la flessibilità offerta potrebbe scontrarsi con le convinzioni manageriali esistenti, producendo comportamenti che frenano le possibilità offerte.

C’è inoltre da chiedersi se forme di lavoro agile debbano considerarsi responsabilità sociale o scelte organizzative tra le altre che debbano rientrare nelle logiche di innovazione del modo di lavorare.

Il rischio, come già sottolineato, è che questi progetti diventino uno strumento di comunicazione aziendale, legato più a logiche di affermazione del proprio modo di essere e del proprio stile che alla sostanza.

In questo caso le reazioni delle persone possono essere non solo infastidite, ma addirittura potrebbero diminuire la credibilità manageriale perché afferenti ad una prospettiva ben nota della diversità tra il dire e il fare.



Conclusioni


Per concludere personalmente ritengo le politiche di welfare aziendale possano costituire un ottimo spunto di riflessione per costruire una cultura organizzativa e sociale orientata al monitoraggio dei cambiamenti. La crisi del welfare state, ad esempio, dovrebbe essere un argomento cardine della formazione a supporto dell’welfare aziendale, per fare comprendere come le politiche del tutto e sempre gratuito non possano più reggere alla domanda crescente collegata all’aumento e alla sanitarizzazione degli ultimi anni della vita.

Analogamente la crisi del sistema pensionistico deve essere affrontata come un orizzonte su cui costruire non solo le integrazioni possibili offerte dall’azienda, ma come uno elemento di conoscenza approfondita che dimostri come le generazioni attuali abbiano dei privilegi innegabili pagati, forse, dalle generazioni future.

Occorre accrescere una sensibilità informata e aderente ai fatti ai temi dell’welfare, costruendo nel contempo delle politiche aziendali degne di questo nome, ovvero capaci di dimostrare la propria ragion d’essere in un contesto mutato e mutevole.

All’interno di una strategia ragionata sarà più facile costruire progetti che tengano insieme pubblico e privato sociale, per offrire qualcosa di utile e di innovativo


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