Partiamo da qualche esempio di vita organizzativa.
Dalla sua scrivania Milena M. osserva arrivare il suo capo. E’ visibilmente alterato da qualche evento accaduto in precedenza. Milena deve andare a portargli un problema ed è molto preoccupata. Il capo è noto nel gruppo per essere un esperto di management by shouting, disciplina molto in uso tra i capi italiani che potrebbe essere tradotta come “gestione attraverso le lavate di capo”. Ha però chiesto l’incontro prima di vederlo e non poteva immaginare la situazione. Purtroppo durante l’esposizione timorosa e frammentata del problema, il capo “esplode”. Urla che così non si può andare avanti, che ha dei collaboratori incapaci e così via. La scena è agli occhi di Milena terrificante. Se ne va tra le lacrime.
Seconda storia: Paola C. è arrivata da poco nella nota società di consulenza, ma con il suo carattere molto deciso ha già teso a mettere in chiaro che proviene da esperienza di tutto rispetto. Sicura, molto preparata, non perde occasione per esprimere il suo parere anche quando è in visibile disaccordo con gli altri. Inoltre ha deciso di tenere molto ben separate la vita professionale e quella familiare e quindi tende a non parlare di sé, neanche durante le pause, ma anzi di approfittarne per chiudere le questioni lasciate in sospeso. Da qualche tempo Paola si è accorta che quando lei entra negli open space il chiacchiericcio esistente si attenua, davanti alla macchina del caffè tre colleghe si sono improvvisamente zittite al suo apparire. Anche durante l’intervallo di pranzo si trova sempre in anticipo o in ritardo rispetto al gruppo, tanto che ha deciso di mettersi a dieta con due ottime barrette sostitutive. Ora che è passato qualche mese si sente isolata ed è attraversata da un dubbio, lo stesso che attraversa Milena: sono mobbizzata?
Si, perché un fantasma si aggira nelle organizzazioni ed è pronto ad aggredire soprattutto le donne: il fantasma del mobbing.
Che cos’è il mobbing esattamente, nessuno lo sa. Una descrizione “teorica” lo definisce in questi termini: azioni che mirano a attaccare la possibilità di comunicare, attaccare le relazioni sociali, attaccare l’immagine sociale e la qualità della relazione professionale di una persona in un gruppo. A questo punto invito tutte le lettrici a prendere carta e penna, pensare all’ultima settimana di lavoro e segnare tutte le volte che si sono sentite “mobbizzate” secondo i criteri sopra tracciati. Scommetto che alla fine l’elenco non sarà breve.
La spiegazione è semplice: l’organizzazione è un luogo di sofferenza, come ben descrive Peter Frost nel libro Disintossicarsi dal lavoro. Come trasformare il proprio posto di lavoro in un ambiente sano, umano e produttivo recentemente edito da Etas, una sofferenza che per un certa percentuale è fisiologica.
Dover dividere il lavoro, coordinarsi per raggiungere obiettivi, confrontarsi per dirimere diversi punti di vista, negoziare interessi diversi, tutto questo è difficile con persone che si scelgono, mariti, fidanzati o amici, figuriamoci con altre persone che sono selezionate da un asettico ufficio del personale. E’ divertente poi vedere come magari si va più d’accordo con il collega o il capo che non con il marito o la moglie, dimostrando che, a volte, l’asettico ufficio del personale ha maggiori competenze delle nostre nel mettere insieme una coppia affiatata.
Certo questo non giustifica comportamenti scorretti, cattivi o vessatori che l’organizzazione deve essere in grado di sanzionare e cercare di modificare. Si vuole però mettere in guardia dall’estensione dell’elemento patologico, ponendo viceversa l’accento sulla fisiologia delle difficoltà di relazione. Come ben diceva Sartre: l’enfer c’est les autres.
Di conseguenza l’uso di un’unica etichetta, mobbing appunto, rischia di appiattire tutta una serie di fenomeni organizzativi, sia di disegno delle strutture che di comportamenti dei soggetti. Insomma il mobbing diventa la “notte in cui tutte le vacche sono nere” come diceva Hegel. Ovvero una etichetta contenitore di moda che, invece di aiutare a capire dei fenomeni complessi, aggiunge solo confusione.
Dal punto di vista soggettivo esiste un pericolo che credo si sia già intuito: quello di sollecitare un vittimismo che paralizza invece di sorreggere. A questo pericolo di natura generale si aggiunge il tratto femminile che ben si sposa con il ritrarsi, il mettersi a piangere in un angolo invece che lottare, il sentirsi escluse invece di comprende quali meccanismi di auto esclusione si mettono in atto.
Se qualcosa in questi anni ci ha insegnato l’approccio sistemico alle relazioni, quello della scuola di Gregory Bateson e Paul Watzlawich, è che ciascuno è con- causa di quanto gli accade, che ogni persona contribuisce a evidenziare un aspetto della comunicazione, quello che riguarda le cause altrui, rispetto ai propri comportamenti. Una abilità che può diventare apoteosi, come insegna Watzlawich nelle Istruzioni per rendersi infelici (Feltrinelli): provate su un lungo viale ad osservare i semafori, quando voi vi avvicinate scatta sistematicamente il rosso. Siete davvero sfortunati o perseguitati!
E’ chiaro che su un lungo viale di città la probabilità di trovare rosso è molto elevata, e quindi si riesce a rendersi infelici in modo molto efficace.
Nelle organizzazioni accade lo stesso: la possibilità di trovare egoisti e teste di cavolo è tanto elevata quanto quella di trovare un semaforo rosso.
Personalmente ho in mente un serial mobber che mi ha rovinato la vita per diversi anni. Ho fatto una cosa molto semplice: prima ho cercato di tenergli testa e, vista l’inutilità dei tentativi, ho cambiato lavoro.
Coraggio ragazze, teniamo alto l’onore, e prima di sentirci “mobbizzate” mettiamo in atto tutte l e nostre competenze di risposta, sia personale che organizzativa e non compiangiamoci più del necessario!
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