Per anni in Italia l’attenzione alla gestione delle diversità o diversity management è stata appannaggio di una ristretta schiera di addetti ai lavori. Se ne parlava solitamente in modo tangente, giusto per affermare un principio importante in uno scenario economico, sociale ed organizzativo che ne imponeva fortemente la necessità. Nei contesti internazionali, soprattutto di impronta americana, il tema invece era ed è di grande attualità. Ora le cose sono mutate in modo visibile e moltissimi sono i soggetti che si confrontano circa le strategie possibili di gestione della diversità in azienda.
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Personalmente ho iniziato ad occuparmi del tema a metà degli anni ’90 con un interesse, lo confesso, strumentale. Da molti anni docente alla SDA Bocconi e consulente aziendale sui temi del comportamento organizzativo, mi ero appassionata all’argomento della vita femminile all’interno delle organizzazioni. Passione che sicuramente nasceva da lontano, sia da una militanza politica che da un interesse personale, ma che si concretizzava in una sorta di impotenza: osservavo aule, soprattutto quelle top, esclusivamente maschili e, dall’altra parte della cattedra, pochissime erano le donne che occupavano posizioni interessanti. Da questo punto di vista, l’università Bocconi in cui la Scuola di Direzione era inserita offriva uno spaccato di grande interesse: la prima donna ordinario comparve nel 2000, a circa 100 anni dalla fondazione.
La motivazione personale era anche una domanda di ricerca: perché nel contesto italiano le donne sono totalmente assenti dal potere nel contesto italiano?
Da qui, nel 1999, fondai il Laboratorio Armonia, che ho diretto per 10 anni circa, e mi accorsi rapidamente che mai il tema del femminile sarebbe stato, in quanto tale, accolto dalle aziende che pure si interrogavano su modalità innovative di gestione delle persone.
Compresi che le tematiche del management al femminile potevano essere “degne” di attenzione solo se inserite nel più ampio tema del management delle diversità.
Un escamotage quindi che però ha prodotto una stagione feconda, sia a livello personale che per la business school in cui ho operato, che si avvale ora di un team di persone piuttosto cospicuo che continua nel lavoro accademico e di ricerca intorno al Diversity Management.
Intanto le cose in questi dieci anni sono mutate in modo considerevole: non solo la gestione delle diversità, ma anche il tema delle donne nel lavoro e nelle carriere è assolutamente sotto i riflettori. Si sono moltiplicate iniziative anche interaziendali per affermare il principio della validità di un universo organizzativo plurale, molti giovani ricercatori hanno fatto di questo tema il loro campo di studi e, soprattutto, moltissime aziende non solo multinazionali, ma anche italiane, hanno inserito questo principio tra i loro valori e stanno sperimentando prassi di gestione a volte tradizionali, altre decisamente innovative.
In questo quadro di positiva effervescenza vi sono, come è naturale, una serie di problematicità.
Da un lato un inevitabile “effetto moda” che fa diventare impellente utilizzare la dizione senza il necessario approfondimento. Questo accade sia a livello teorico, dove sono spuntati sedicenti esperti, ma anche a livello operativo, dove basta inserire un corso di formazione per ostentare una correttezza politica di facciata.
A questo fenomeno, che riguarda tutti gli argomenti che assumono una centralità nel dibattito organizzativo, se ne affianca un altro a mio parere più pericoloso. Si tratta della retorica della diversità che aggiungerebbe valore sempre e comunque ai contesti organizzativi. Un approccio da “venditori” che sottovaluta tutta la portata della gestione della diversità, sia dal punto di vista delle difficoltà della sua introduzione che della complessità di gestione.
Dall’altro una serie di contraddizioni che si scoprono appena si scava sotto la superficie delle parole, che cercherò di sintetizzare nel primo capitolo e che pongono alcune domande ai consulenti e ai manager, intorno al rischio dell’importazione non mediata di modelli di stampo americano in contesti culturalmente e storicamente totalmente differenti.
Gli esempi che porterò mettono in luce che sul tema della diversità in realtà spesso si agisce stendendo una coltre omogenea, derivante da un etnocentrismo pericoloso ed endemico proposto dai paesi anglosassoni spesso, purtroppo, inconsapevolmente.
Dall’osservazione di questo mutato scenario nasce il desiderio di condividere, in questo libro, le principali considerazioni che hanno accompagnato il mio ultimo decennio di lavoro, problematizzando quelli che a mio avviso sono i principali aspetti di contraddizione di questo tema, cercando, nel contempo, di fornire alcune linee guida a coloro che volessero misurarsi con questa tematica in termini gestionali.
Questo non è quindi un testo accademico, con tutte le citazioni necessarie a definire lo stato dell’arte della letteratura, ma un manuale operativo che intende da un lato tornare alle radici dei problemi che il diversity management affronta, mettendo in guardia dai suoi pericoli, per poi riflettere sulle possibili strategie di applicazione nei differentii contesti aziendali.
Vuole anche offrire uno spunto di riflessione agli individui, siano essi manager o persone a differenti livelli dell’organizzazione che operano in contesti a conclamata diversità, per mettere a fuoco delle strategie personali di responsabilità nell’interazione con persone diverse da sé. Uno spunto autoriflessivo che chiude il cerchio nel rapporto sistemico tra individui e organizzazione, in cui ciascuno dei due elementi non può vivere senza un’interazione consapevole con l’altro.
Una considerazione conclusiva che è contemporaneamente un auspicio: le aziende, soprattutto quelle globali, sono un interessantissimo laboratorio di convivenza.
Studiarle attentamente aiuta a comprendere strategie esportabili nel sociale e a mettere a fuoco punti di rottura inevitabili.
Dal mio personale punto di vista dopo anni di attenzione alle diversità, una attenzione che rischia di diventare un elemento distorcente nell’osservazione della complessità, vorrei rivalutare ciò che rischia di scomparire nell’ossessiva attenzione agli elementi che dividono: ciò che accomuna le persone nel loro rapporto con il lavoro, al di là del genere, del colore della pelle, dell’orientamento sessuale o della religione.
Dobbiamo essere consapevoli che la nostra azione di ricercatori può supportare la nascita di “nuovi e più sofisticati stereotipi” producendo un effetto opposto a quello richiesto. Per sottolineare questa attenzione alla complessità degli individui, a ciò che unisce e non solo a ciò che differenzia, si potrebbe cambiare etichetta, non parlando solo di diversità, ma di pluralità, in modo da sottolineare il continuo e progressivo mutamento di organizzazioni e individui. La dizione l’ho incontrata per la prima volta utilizzata dalla società Ikea a cui sono debitrice di questo spunto.
Una distinzione dunque non solo lessicale, ma che tenta di trasmettere alcuni significati importanti: in primo luogo gli obiettivi che sono di convivenza organizzativa e armonia di gestione ed in secondo luogo dal punto di vista individuale di inclusione e benessere.
Questi obiettivi nascono da difficoltà e problemi concreti che oggi attraversano le organizzazioni da cui è necessario ripartire per tracciare degli itinerari di soluzione.
Il libro si divide in tre parti: Diversità e cultura, I problemi aperti e Management Plurale: dalla teoria all’azione..
Nella prima parte si cerca innanzitutto di fare il punto della situazione mettendo il luce, nel capitolo 1, le principali contraddizioni che attualmente si diffondono nelle organizzazioni sia ad opera di consulenti approssimati che per l’importazione senza mediazione di modelli di stampo americano.
Nel capitolo 2 vengono esaminate le motivazioni che sorreggono la ricerca di nuove modalità di gestione che tengano conto della diversità. Si sottolineano le tendenze all’incontro / scontro tra culture, la femminilizzazione del mercato del lavoro, l’avanzamento dell’età, ma anche la nascita di nuovi e più sofisticati bisogni che le persone mettono in campo nel rapporto con il lavoro. Uno scenario complesso, ma di grande interesse e, soprattutto, in continua evoluzione. Un capitolo dunque che andrebbe riscritto continuamente.
I capitoli 3 e 4 affrontano il tema della diversità nei suoi elementi costituitivi: le culture organizzativa e le identità individuali.
Dietro questa proposta ci sta una domanda: quando e perché alcuni individui subiscono un processo di esclusione dalle normali dinamiche che caratterizzano il mondo del lavoro? Come si concretizza una situazione di opportunità impari, non legate alle competenze e alla prestazione lavorativa, ma soggette a mis-interpretazioni collegate a caratteristiche del soggetto non pertinenti al lavoro? In altre parole esistono o meno, e in caso affermativo perché, delle discriminazioni legate al genere, al coloro della pelle, all’etnia di appartenenza, all’età?
La risposta, ovviamente affermativa, viene proposta da un lato costruendo degli schemi di lettura delle culture organizzative, ovvero l’ambiente in cui si formano e perpetuano alcuni stereotipi verso gruppi di persone tra loro molto diverse; dall’altro indagando la spinta individuale alla costruzione delle linee di separazione tra i gruppi che sono ovviamente prodotte da molte scelte individuali che si sommano in un cultura prevalente.
La tesi centrale di questo libro può essere così riassunta: affrontare la gestione della diversità significa quindi avere la pazienza di indagare la propria cultura, le distorsioni insite in essa, ma anche offrire agli individui lo spunto per comprendere ed eventualmente rivedere i propri soggettivi comportamenti di esclusione e di inclusione.
L’Interludio tra la prima e la seconda parte offre uno spaccato concreto di “Identità in evoluzione”, ovvero di persone che, per scelta o per obbligo, hanno attraversato confini, sia geografici che si altra natura, ricostruendo nuove identità. Il loro è un esempio per comprendere che tutti attuiamo delle scelte e che queste scelte si riverberano più o meno profondamente sul nostro modo di agire, pensare e comunicare. E’ anche una meta- riflessione circa la possibilità di aprirsi al mondo, senza esserne fagocitati, ma convivendo con altre identità anch’esse in evoluzione.
La parte B intende mettere in luce i problemi esisti, a partire da quelle di genere e di età, che le organizzazioni si trovano ad affrontare. Viene affrontato il tema dell’integrazione dei “punti di vista”, inteso come la propensione soggettiva ad essere autocentrati, cercando di suggerire a coloro che gestiscono i contesti organizzativi, di mettere a confronto e di coordinare questi punti di vista per raggiungere un risultato efficace..
Infine, nella parte C, si intendono portare suggerimenti, anche operativi, circa la progettazione e la proposta di un “management plurale”, attraverso un itinerario che sia in primo luogo di consapevolezza della singola diversità aziendale, della propria storia, dei propri valori, ma anche delle proprie linee di esclusione. Partendo da questa individualità, e comprendendo la propria cultura, è possibile ripensare i due grandi capitoli che sono a presidio dell’inclusione: le logiche e gli strumenti di gestione del personale e le politiche e le attività inerenti la responsabilità sociale d’impresa. Prima di pensare e progettare progetti specifici, ogni discriminazione può essere superata attraverso le regole vigenti ed affrontando le culture che le sorreggono.
Poi, certamente, si possono inventare elementi di dettaglio, costruire momenti di innovazione, lanciare campagne specifiche, ma il punto di partenza non può che essere la normale, quotidiana, vita aziendale.
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