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  • Immagine del redattoreCristina Bombelli

Il lavoro come identità

Mio marito, dopo che è nata la bambina, mi ha detto che se volevo, potevo starmene a casa. Io per un po’ l’ho fatto, ma mi sentivo troppo isolata. Allora ne ho trovato un altro, che mi portasse meno in giro, anche se meno prestigioso. Eppure tutte le mattine mi chiedo se non è il caso che ci ripensi…

Giorgia è una bella ragazza di 35 anni, anche se lei non sarebbe d’accordo con questa definizione perché le donne vedono sempre solo i difetti del loro corpo e non le magnificenze, che si interroga su cosa fare del proprio lavoro, se tenerlo o cambiarlo e, in questo secondo caso, in quale direzione.


Questo tema che nella parte più evidente, la punta dell’iceberg, potrebbe essere qualificato come di conciliazione casa – lavoro, o di work and life balance, per dirlo con il linguaggio delle aziende multinazionali, in realtà nasconde qualcosa di più profondo, ed è la fatica di Giorgia di far spazio a diverse identità.


In questi casi si rimpiange quasi il passato, quando il lavoro era duro e spesso sporco e non era difficile lasciarlo. Nella storia delle donne, nei racconti del lavoro, appare spesso però una parte che anche allora era estremamente importante: le relazioni, le chiacchiere, il cameratismo.

Ricordo quando ero piccola, negli orari di inizio delle fabbriche, nuvole di donne a piedi, più silenziose alla mattina, decisamente più ilari nel dopo pranzo, ma sempre in conciliabolo, strette una all’altra nel raccontarsi e nel sostenersi. Certo, a volte anche querule o litigiose, ma dentro una rete di significati che travalicava il fatto di passare le otto ore successive a stampare materie plastiche o a sagomare l’alluminio.


A questo supporto relazionale oggi si aggiunge la sfida gestionale e intellettuale. Giorgia lavora in una banca, coordina 15 persone, ha contatti con le sedi estere… Insomma mette nel suo lavoro molta parte di sé, ed esso le dà in cambio una serie di sfide continue e crescenti, in cui lei può misurasi imparando ogni giorno qualcosa di nuovo e che le dà soddisfazione.

Questo significa che il lavoro diventa identità, diventa una parte imprescindibile di sè stessi.


Questo cambiamento è visibile nelle generazioni, prima lavoratrici per obbligo, poi via via per scelta, con il conseguente ingrossarsi dell’esercito delle casalinghe, poi ancora le donne sempre più numerose nei luoghi di lavoro e, in numero esiguo, anche se crescente, nelle posizioni di comando.


Casa, figli, marito e lavoro. Ma anche altro, perché le donne leggono più degli uomini – lo dicono i numeri dell’ISTAT – vanno al cinema, a teatro, visitano le mostre e viaggiano. Insomma mettono in campo il mitico “tempo per sé”.

Sfere diverse che convivono e, spesso, si affollano in un solo “io”, con il rischio di lasciarci un po’ stordite.


Le conseguenze del lavoro come identità sono ben esplorate in un libro in uscita da Etas, scritto da Herminia Ibarra, professore di Harvard, che si intitola appunto “Identità al lavoro”. L’autrice arriva a questo tema osservando e descrivendo numerose svolte lavorative, cambiamenti di posto e di attività , che sono in realtà delle conversioni quasi complete.

In questi casi le persone vivono dei momenti di autentico sconcerto e di grande travaglio: come se la gestazione interiore fosse proprio quella di una creatura diversa, di un'altra parte di sé che deve trovare la luce.


In quelle storie ho trovato molti echi di quelle che mi capita di raccogliere nel mio lavoro di formazione o di coaching. I dubbi, le ansie e le paure: resto dove sono, cambio, inizio un nuovo corso di specializzazione, vado all’estero…

Ibarra fa alcune considerazioni interessanti a valle della sua ricerca. La prima è che quando il lavoro diventa identità non è possibile uscire dai proprio dubbi a tavolino, in modo teorico, secondo due dettami che nel passato – e per quanto ne so, ancora oggi – sono venduti dai vari counselor o dai testi manageriali. La prima teoria da negare è che esista un “vero sé”, unico e adamantino, che debba essere cercato con test attitudinali, colloqui con specialisti o assessment di varia natura. La seconda è che la carriera di può articolare come un business plan, secondo alcuni passaggi ben definiti, con indicatori di verifica razionali.


Il percorso è al tempo stesso più semplice e più complesso. Più semplice perché si tratta di sperimentare, non di pensare. Il lavoro come identità presuppone una dimensione dinamica che non si può esaurire in una valutazione dell’esperto: la persona cambia, si modifica nelle interazioni con la propria attività e con gli altri che le stanno intorno. Più complessa perché ognuno deve decidere da sé cosa sperimentalmente prova nel contesto lavorativo. Bisogno diventare sinceri con sé stessi per scoprire cosa piace realmente, e cosa invece è meglio tralasciare nella bulimia lavorativa.


In questo percorso sperimentale non vi sono certezze, non si può prescrivere una certa formazione, una posizione o una azienda che garantiranno certi risultati. Ciascuno deve tessere la propria storia lavorativa e personale in modo unico, sfruttando le proprie peculiarità e ricercando le soggettive specifiche soddisfazioni.

Certo le donne in questo itinerario hanno spunti maggiori, che le sfidano in modo più complesso e al tempo stesso più allettante.


Non esiste solo l’alternativa ormai superata tra casa e lavoro. Si tratta di decidere quale lavoro, ma anche quanto spazio lasciare ad altre avventure potenziali, interessi personali e possibili alternative, ad esempio imprenditoriali.

In questa abbondanza di possibilità si può soccombere, oppure arrovellarsi ogni mattina sul da farsi.


Ovviamente non c’è soluzione: come suggerisce Ibarra bisogna solo sperimentare e verificare di volta in volta cosa succede, con un’unica grande certezza: quella nella proprie competenze e nel proprio buon senso. In questo itinerario bisogna rispondere solo a sé stesse, e alla propria capacità di giudizio. Anche se so che per molte di noi non è facile.


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