E’ iniziato come un fastidio, niente di serio. Poi, nelle mie quotidiane attività di ascolto delle persone che lavorano, ho rilevato una crescente tendenza femminile verso un’attività inutile e spesso pericolosa: quella del lamento.
Le modalità e gli oggetti possono essere diversi, ma il risultato è un atteggiamento sintetizzabile nel famoso gioco del “Si, ma….”, tratteggiato da Eric Berne in “A che gioco giochiamo” (Bompiani) .
Consiste in questo: alla lamentela l’interlocutore prova una via d’uscita. Ad esempio se riguarda un capo piuttosto disattento ai carichi di lavoro si può proporre: “Potresti essere più ferma nel negoziare i tuoi ritmi”. E l’immancabile risposta è: “Si, ma sicuramente lui non mi ascolterà, e quindi è inutile che io ci provi….”. L’escalation dei “si, ma…” fa capire che quella a cui stiano assistendo è proprio una lamentazione quasi rituale, senza nessun desiderio di provare a trovare una soluzione o ad uscire dall’eventuale circolo vizioso nel quale si è cadute.
Un lato positivo il lamentarsi lo possiede: l’interlocutore comprende, lenisce, sostiene. Chi non ha sperimentato quanto a volte basti uno sfogo, e si può ripartire con più lena.
Il pericolo invece si annida nella lamentazione che diventa fine a sé stessa, una prova della propria dedizione contro un universo del male che congiura contro.
Intendiamoci, di cose di cui lamentarsi nel mondo organizzativo odierno ce ne sono molte. Il lavoro aumenta e le posizioni sono sempre meno chiare. Questo significa che è difficile segnare il confine tra le posizioni. E’ facile, di conseguenza che le persone disponibili, poco inclini al “no!” quali sono spesso le donne, si trovino penalizzate.
Un altro ambito sul quale si possono trovare ragioni di esasperazioni è quello organizzativo. La procedura stupida, piuttosto che le scadenza che danno ansia collettiva e che poi vengono inaspettatamente rinviate, i capi spesso dotati di leadership quanto una mozzarella, sono temi di lamentela collettiva. Alcune volte questi episodi mettono in luce reali incapacità gestionali, ma spesso sono fisiologiche rappresentazioni di una complessità che è di difficile controllo e che necessariamente contiene approssimazioni.
Il filo rosso che lega questi esempi sono gli “altri”, visti come cattivi, incompetenti, aggressivi. Mentre chi si lamenta rappresenta sé stessa come una povera vittima, che non può che suscitare solidarietà. Ne ho presente una in particolare: ha ormai assunto il visto da “santa” dell’iconografia cattolica, il capo sempre un po’ di lato, il sospiro continuo e lo sguardo sbieco. Ogni tentativo di aiuto concreto viene glissato con maestria, per continuare a impersonare il personaggio costruito, l’unica persona sensata dell’ufficio che deve sacrificarsi per mandare avanti le cose.
Forse è un’esagerazione, ma stiamo attente a non cadere in una trappola femminile troppo facile conseguenza di una storia di sacrifici e abnegazione.
L’antidoto a questo pericolo consiste nel praticare i risultati. Troppo spesso si perde più tempo nel lamentarsi o nel tentare di schivare un lavoro di quanto sia necessario nello svolgere concretamente l’attività. E quando sulla nostra strada appaiono gli specialisti del “Si, ma…” può essere utile giocare un paio di partite di prova e poi procedere, senza tentennamenti, sulla nostra strada senza dare sponda a parole spesso inutili.
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