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Immagine del redattoreCristina Bombelli

Identità e diversità in azienda: io e l’ altro

Con L. Girelli


Indice


Premessa

La costruzione dell’identità

Comunicazione e stereotipi

In-group / out-group

Strategie inclusive

L’educazione alla diversità

Conclusione

Riferimenti bibliografici


Premessa


I progetti di Diversity Management, nelle diverse accezioni sia nominalistiche che di prassi utilizzate in azienda, spesso sottovalutano i percorsi individuali soggiacenti al tema della diversità, ovvero come e perché le persone, a partire da caratteristiche individuali sia biologiche che culturali o di personalità, costruiscano confini verso gli altri, i diversi-da –sé, e quali motivazioni contribuiscono a creare dei sottogruppi tra loro spesso impermeabili.


In questo contributo si cercherà di descrivere le principali problematiche riguardanti le dinamiche interpersonali sempre presenti in un contesto organizzativo, nonché di mettere in luce i rischi di alcune pratiche organizzative che invece di contribuire all’inclusione, spesso involontariamente sollecitano la costruzione di steccati.


La costruzione dell’identità


Coloro che si occupano di diversità individuale dal punto di vista organizzativo propongono una lettura dell’individuo secondo una descrizione delle caratteristiche concepita per stratificazioni (Fig. 1) (Gardenswartz, Rowe, 1994) , più o meno strutturali e modificabili.


Al centro della ruota viene posta la personalità, seguita da quelle che sono definite “dimensioni interne” non modificabili per volontà dell’individuo, come l’età, il sesso, l’appartenenza ad un gruppo etnico, l’aspetto fisico e così via. Le dimensioni “esterne” sono quelle che, viceversa possono essere modificate e lo sono invariabilmente nel corso della vita: ci si sposa o si divorzia, si può traslocare e cambiare il luogo di residenza, il proprio reddito può subire della variazioni, si può decidere di migliorare la propria istruzione o di cambiare la chiesa di appartenenza. Infine, vi sono le “dimensioni organizzative, che descrivono la propria diversità all’interno del mondo del lavoro, la posizione occupata, l’anzianità aziendale, lo status gerarchico e l’appartenenza funzionale, solo per citarne alcune.


La distinzione così operata porta a delineare la specificità individuale come sommatoria di tratti di personalità – intesa qui come il nucleo centrale “immodificabile” su cui si costruiscono gli altri livelli - , elementi “interni” , definiti come caratteristiche strutturali che non sono sotto il controllo e la volontà del soggetto, ed infine aspetti “esterni”, che la persona può decidere di cambiare nel corso della propria vita. Anche gli aspetti inerenti il luogo di lavoro definiscono alcune caratteristiche di natura più contingente, alcune plastiche altre molto meno.


Il pregio di questa lettura tassonomica è di essere indubbiamente esaustiva e di includere tutti i livelli di differenziazione individuale, fornendo in sintesi estrema una sorta di indice dei molti aspetti del diversity e dei possibili interventi organizzativi.

Tuttavia, tale schema - che ipotizza una soggettività costituita da parti “fisse” e “variabili” - non rende merito della complessa dinamica di continuo rimando e interrelazione tra i diversi livelli dell’identità, e di come questa dinamica si modifichi nel tempo, non solo nei livelli più esterni, ma a qualsiasi livello.


Così, elementi identitari contingenti, come ad esempio appartenere ad una certa azienda o ad un gruppo professionale, perdurando nel tempo possono determinare nel soggetto un tale livello di identificazione da incidere sul nucleo più interno dell’Io, esprimendone i valori, l’immaginario e la progettualità. Nel momento in cui l’individuo chiede al proprio lavoro il soddisfacimento di bisogni non solo materiali e reddituali, ma di realizzazione personale, ecco che il contratto tra il lavoratore e l’azienda coinvolge profondamente, modificandola in parte, la personalità dei soggetti.


Se è comprensibile che in una lettura organizzativa la “personalità” del soggetto sia considerata un nucleo non modificabile – o per meglio dire, non di pertinenza degli interventi organizzativi -, è importante considerare come in realtà quel nucleo rappresenti il vero motore del cambiamento identitario, ed è anche il livello più autenticamente coinvolto nella definizione del “contratto psicologico” tra persona e azienda.


In senso inverso, elementi oggettivamente immutabili come l’età, il genere, la razza, ecc., possono essere percepiti dal soggetto e da lui integrati a partire da tratti diversi di personalità (una minore o maggiore autostima di base, ad esempio), con risultati molto distanti. Ovvero, elementi di identificazione analoghi e fattuali – essere una donna bianca di quarant’anni – possono comportare un vissuto di identità diverso.


La costruzione dell’identità, quindi, è un processo per sua natura dinamico, che implica da parte del soggetto una posizione ricettiva rispetto agli stimoli esterni, e attiva nell’operare continue scelte, più o meno consapevoli.

Secondo Remotti (1996), costruire l’identità personale significa raggiungere una coerenza di costrutto, selezionado via via dall’infinito flusso delle possibilità aperte solo alcune a discapito di altre: per prendere una forma e manifestarsi, bisogna necessariamente rinunciare – almeno momentaneamente - a tutte le altre forme possibili, altrettanto legittime: “de-cidere l’identità è un re-cidere le connessioni con altre identificazioni”.

Identificarsi vuole dire allora in parte irrigidirsi, definire un confine che mentre ci contiene, segna inevitabilmente un limite, ed anche una separazione dagli altri.

L’altro, il diverso-da –noi, ci viene incontro ricordandoci quello che noi non siamo, diventando per questo solo fatto in parte necessario e complementare, ed in parte minaccioso.


Nel processo di selezione delle possibili identificazione, un ruolo chiave lo giocano quelle figure di autorità che - spesso con sguardo giudicante - rinforzano o frustrano la direzione delle nostre scelte identitarie. Ciò che viene apprezzato o redarguito nel comportamento costituisce un universo di senso che definisce sé in relazione agli altri. Ad esempio l’estroversione o la compostezza possono venire sollecitati, come il valicare i confini del proprio gruppo, la famiglia in primo luogo, o la frequentazione di persone di altre religioni o di altra estrazione.


Le figure di autorità, influenzando in parte la scelta delle identificazioni, trasferiscono elementi culturali nelle generazioni successive, rendendoli radici di identità personale.


Comunicazione e stereotipi


L’identità individuale è quindi il frutto di un processo complesso che non si conclude mai, che attraversa tappe più o meno simili nel loro ciclo di crescita, che manifesta equilibri più o meno stabili e che predispone a soggettive rigidità o malleabilità nell’accogliere gli altri.


I processi sociali più problematici, dove gli individui possono “scontrarsi” tra loro in nome di differenze che diventano confini, sono la comunicazione interpersonale ed organizzativa, che comprende le dinamiche di costituzione dei gruppi e della loro relativa permeabilità.

Nel caso della comunicazione il processo è facilmente descrivibile: per poter dialogare con il mondo che è complesso, ricco di stimoli e agenzie informative diversificate, è necessario dare ordine alla realtà in base ad un sistema di categorie.


L’attività di categorizzazione è quindi il processo di segmentazione del flusso continuo della realtà e dell’esperienza in categorie o classi distinte che costituisce un vincolo psicologico per il funzionamento mentale degli esseri umani. Senza di essa non è possibile il pensiero.

Questo processo assolutamente fisiologico diventa patologia nel momento in cui al gruppo vengono attribuite delle caratteristiche omogenee. E’ importante notare come questo processo non sia svincolato dalla realtà, ma, nella maggior parte dei casi, la descrive. Le caratteristiche ad esempio della diverse culture sono state oggetto di un lavoro di categorizzazione molto approfondito da parte di Hofstede, con la costruzione di un modello interprestativo estremamente utile nella pratica manageriale. Il rischio di questo lavoro, così come sottolineato da diversi osservatori, è che irrigidisca queste caratteristiche, rischio che viene accentuato dalla proposta di un ranking tra i diversi paesi con l’utilizzo di uno strumento matematico applicato ad elementi per loro natura molto qualitativi.


Il processo descritto avviene continuamente nella realtà, soprattutto quando alle caratteristiche delle diverse categorie si aggiungono, nella personale visione di ciascuno, dei giudizi di valore.

Così l’allegria degli italiani diventa fastidioso rumore, piuttosto che la formalità della comunicazione non verbale dei nord europei diventa distante freddezza.

Ciascuno svolge una operazione di confronto tra sé e gli altri, tra i propri comportamenti e quelli altrui, osservando con particolare attenzione coloro che sono diversi da sé. Questa attenzione non è asettica, scevra di giudizio: in primo luogo ciascuno tende a confermare il proprio agire.


La messa in discussione di alcuni elementi di diversità, dalla comunicazione, alla scelta dei cibi, dal modo di vestire, all’approccio al potere e alla carriera, è tanto più difficile quanto il singolo elemento è profondamente radicato nella propria identità e quindi, dal punto di vista individuale, non suscettibile di negoziazione.

Inoltre, come vedremo successivamente, la categoria vista da fuori è maggiormente omogenea che dal punto di vista di chi vi appartiene.


Ingroup / Outgroup


I processi sopra descritti, il primo di natura più generale di costruzione dell’identità ed il secondo di natura più relazionale, sono entrambi segnati da fenomeni di separazione e appartenenza, in quel processo dinamico dove da una parte ci si separa da alcune possibilità e identificazioni, dall’altra si sceglie di appartenere ad altre.


Nella formazione dell’identità questi aspetti sono fondamentali: dalla famiglia, transitando per i gruppi di amici, dell’oratorio, oppure di una comune fede politica o di una passione per uno sport, ogni vita individuale potrebbe essere letta e descritta attraverso i gruppi in cui abbiamo recuperato il contatto con l’altro da noi, che si sono attraversati e verso cui si sono creati dei legami più o meno profondi.

I gruppi fortemente caratterizzati dai valori danno luogo al groupthink, un processo molto evidente anche a livello pubblico, in cui ciascuno conferma l’altro nella propria visione, fino a creare una sorta di circolo chiuso, in cui la complessità della realtà viene distorta per affermare la propria osservazione e farne oggetto di pensiero unico.


In altri termini, viene riprodotta a livello gruppale quella stessa dinamica di selezione e separazione che si è sopra descritta a livello individuale: è qui in gioco la ricerca dell’identità del gruppo.

Questi fenomeni, molto chiari a livello sociale, possono esistere anche all’interno dell’azienda e dar luogo, ad esempio, a “guerre” tra diversi sotto sistemi organizzativi.


Strategie di inclusione


Le premesse sopra delineate servono a far comprendere come la costruzione di un contesto organizzativo inclusivo non sia cosa facile, in quanto ogni individuo porta in sé la distanza e la contrapposizione con l’altro come elementi costituenti la propria identità individuale e sociale.


La dialettica tra dimensione individuale e dimensione gruppale-collettiva, rappresenta uno degli assi fondanti della ricerca, modificazione e ridefinizione della soggettività, come viene evidenziato – ad esempio - in tutto il pensiero psicologico di tradizione junghiana.

Da questo punto di vista appare chiaro come alcuni processi organizzativi proposti nel diversity Management possono sortire esattamente l’effetto opposto di quanto perseguito.


In primo luogo la sottolineatura di un gruppo rispetto ad un altro, comporta inevitabilmente un disagio da parte di chi a quel gruppo non si senti di appartenere. Ad esempio, se una donna di colore, di 45 anni , single, viene inserita in un Women Council, potrebbe trovarsi molto distante dalle problematiche trattate, che possono riguardare ad esempio la maternità e la conciliazione, mentre nella sua vita personale i problemi maggiori possono derivare dal colore della pelle o dall’età. Nella identità multipla ciascuno appartiene a diversi sottogruppi potenziali e l’idea di creare dei gruppi organizzativamente attivi, rischia di irrigidire alcuni aspetti della diversità, invece che renderli più fluidi e permeabili.


Sempre dal punto di vista organizzativo è importante considerare le culture nazionali in cui l’azienda è inserita. E’ che alcuni spunti offerti dal quartier generale siano spesso culturalmente situati e che, nell’etnocentrismo implicito, questo non venga rilevato. Ad esempio il tema riguardante la dimensione sessuale, GLBT, può avere una ragione di esistenza in alcuni contesti, ma in altri può essere assolutamente controproducente. Inoltre, come per la dimensione di genere, precedentemente citata la sottolineatura della diversità può avere l’effetto di distanziare maggiormente il gruppo che ne è portatore rispetto alla sua inclusione. Nel caso specifico poi i soggetti potrebbero ragionevolmente invocare una riservatezza circa aspetti non immediatamente inerenti all’attività lavorativa.


E’ bene ricordare che l’uniformità dei valori e dei comportamenti è organizzativamente e personalmente più gratificante. Dal punto di vista individuale ciascuno di sente confermato nella propria visione, mentre dal punto di vista organizzativo la comunicazione è più rapida ed efficiente. Quindi l’uniformità è organizzativamente efficace perché favorisce l’integrazione e la compattezza. D’altro canto, è condiviso come l’eccellenza di risultato dipenda dalle diversità e dal potenziale creativo che il loro incontro genera, ma questo incontro è spesso faticoso e ragione di grande difficoltà.


Accettare i valori altrui porta ad un allargamento della propria visione, ma alcuni valori sono realmente in conflitto e quindi inconciliabili. Si tratta di una estrema ratio che deve essere tenuta presente per non affrontare il tema in termini esclusivamente valoriali ( la diversità è buona cosa sempre). In realtà, le radici culturali dei popoli sono così profonde ed articolare che molti aspetti richiedono una faticosa conciliazione o addirittura sono inconciliabili.


A volte le strategie di inclusione aziendale riguardano in realtà l’appiattimento delle caratteristiche individuali per configurare una nuova omologazione, su valori, stili e modalità di comportamento condivise in modo quasi ossessivo. Come sintetizza Hamid in un lavoro letterario: Mi guardai intorno mentre alzavamo i bicchieri in un brindisi a noi stessi. Due dei miei cinque colleghi erano donne; W. ed io non eravamo bianchi. Eravamo meravigliosamente diversi… eppure non lo eravamo: tutti noi, S. incluso, venivamo dalle stesse università di élite, Harvard, Princenton, Stanford, Yale; tutti trasudavamo lo stesso senso di sicurezza e soddisfazione; e nessuno di noi era basso o soprappeso…..

L’impressione spesso è davvero questa: che le strategie di inclusione descrivano in realtà altre faglie di esclusione, alcune perfettamente in buona fede, come ad esempio la scelta di alcune organizzazioni al top di assumere solo persone con il massimo dei voti, dimenticando che questa tipologia di selezione valorizza sistematicità di approccio e capacità di concentrazione ed obbedienza, ma forse esclude persone più creative o di vedute più ampie.



L’educazione alla diversità


Da quanto sopra delineato appare chiaro che qualsiasi progetto di diversity management non può che fare i conti con le dimensioni soggettive e farsi carico di educare alla complessità.


Si tratta preliminarmente di diagnosticare la “diversità” aziendale, ovvero di comprendere attraverso la disamina sia delle regole di gestione delle persone che l’osservazione della cultura prevalente, quali siano gli aspetti più critici nel comportamento dei singoli.

Da qui si può intervenire sia a livello formativo che di coaching di gruppo ed individuale per cercare di superare i problemi rilevati.


Educare alla diversità significa in primo luogo cercare di esplicitare la complessità descritta, sviluppando nelle persone una consapevolezza circa la propria individualità e le relative, spesso inconsapevoli, rigidità. Alcuni esercizi d’aula, di delocalizzazione del proprio punto di vista, di auto-diagnosi, possono aiutare, senza colpevolizzare, nel mettere in luce le caratteristiche soggettive.


Analogamente è possibile lavorare sui temi del gruppo, facendo cogliere anche in questo caso quanto sia profondamente diverso categorizzare, dal sentirsi imbrigliati in una categoria in cui non ci si riconosce. Quanti di noi provano un forte disagio nel sentirsi addosso la categoria di “italiano”, nella dimensione sterotipica del mandolino e della mafia?


La diversità declinata in termini culturali, e la relativa convivenza, pone di fronte ad una antinomia ancora più difficile. Da un lato per ogni gruppo sociale esiste una tensione alla conservazione della propria identità, tensione maggiore quando a questa conservazione si attribuisce un valore positivo di preservazione e prosecuzione delle proprie radici, dall’altro ogni gruppo sociale di mescola con altri vicine e lontani, diluendo la propria identità e perdendo tratti caratteristici. L’elaborazione di politiche di convivenza non è dovuta al caso, ma alla capacità di saper riconoscere e negoziare gli elementi di diversità delle differenti culture (Wieviorka, 2002; Meyer, 2001).


Conclusioni

Come abbiamo visto, la tensione tra identità e alterità è l’asse costitutivo del processo di vita e di crescita non solo delle singole soggettività, ma di tutti gli ambiti che sono estensione naturale della soggettività stessa, a partire dai gruppi di aggregazione spontanea fondati su base elettiva, fino ai gruppi organizzati quali per l’appunto l’azienda.


Inoltre, la sempre più rilevante dimensione multiculturale che investe i luoghi di lavoro (non solo le multinazionali, ma sempre più spesso anche aziende medie e piccole con lavoratori stranieri) introduce nuovi livelli di complessità e confronto, che rendono l’azienda un vero e proprio laboratorio sociale, forse ancora prima che un’entità produttiva.


Riconoscere e comprendere le dinamiche inter-gruppo a partire da questa fondamentale dialettica, significa – per chi gestisce ma naturalmente per tutti gli abitanti del sistema azienda – mediare le tendenze espulsive e selettive dei gruppi e degli individui, riconoscendo contemporaneamente il valore delle diverse identità nel loro farsi e consolidarsi.

La sfida culturale e manageriale , non è riducibile ad una semplice e politically correct ”inclusione del diverso” ( che, come abbiamo visto, mentre viene incluso continua o talvolta comincia, a sentirsi diverso), ma deve diventare oggi una più ampia educazione all’alterità.


Altro-da-sè, che senza dovere essere assimilato, diventa portatore di una domanda su noi stessi, e quindi di un autentico rinnovamento e di una vera sapienza: “Alla tua destra, il posto lasciato vuoto per l’arrivo dello straniero è sempre libero. L’ospitalità rende leggeri” (Jabes, 1991)



Riferimenti bibliografici:


Gardenswartz L., Rpwe A., Diverse teams at work: capitalizing on the power of diversity, McGraw Hill, NY, 1994

Jabès E., Il libro dell’ospitalità, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991

Meyer T., Identity Mania, Fundametalism and the Politicization of Cultural Differences, Zed Book, London, 2001

Remotti F., Contro l’identità, Laterza, Bari 1996

Wieviorka M., La differenza culturale. Una prospettiva sociologica, Laterza, Bari, 2001


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